Chiaroscuri.
E’ una di quelle mattine. Bianche. Che mi sembra davvero inutile aprire gli occhi. Di quelle che non ho voglia di staccarmi dal letto, che rimando la sveglia e mi tengo il telefono sotto le coperte o sopra il cuscino come a ricordarmi che mi devo alzare.
Due ore per vedere solo una partenza forse sono eccessive. Ci penso dieci volte prima di infilarmi una maglietta, gli shorts e rifarmi un boccolo con la piastra. Giuro non uno di più stamattina.
Niente sole, un incidente e una coda infinita come le gallerie che portano in Valtellina. E poi la strada che taglia in due la valle, il fiume verde e spumeggiato qua e là, le montagne ancora innevate in lontananza che sembrano di vetro per quella luce che sta uscendo, per quell’azzurro timido che straccia le nuvole.
Tirano sembra ai confini del mondo oggi. Sfilano le viti, i meleti, la linea della ferrovia deserta presidiata da tutte le piccole stazioni da una manciata di chilometri all’altra.
Ma quando arrivo il Santuario è già nel sole, ci sventolano i palloncini lungo le catene della piazza, sventolano le bandierine rosa ai lati del suo vialone principale. Su ogni bandierina c’è un nome: sono tutti i vincitori del Giro, tutti e cento.
La gente è affollata nella piazza dove c’è il foglio firma e poi l’arco di partenza. Vicoli ciechi di persone con i cani assetati al guinzaglio o bambini addormentati nei passeggini. Fa caldo, c’è il sole di montagna, quello che brucia senza che te ne accorga. Il solito delirio del Giro, la musica ad alto volume, i ciclisti che zigzagano, i fischietti e gli addetti che si incazzano una volta sì e una volta sì. Perché è giusto, in fondo il Giro è un meccanismo che non si dovrebbe inceppare. Ogni persona al suo posto, ogni posto alla sua persona, parafrasando un detto. Tutto per loro, perché correre in bicicletta è un rischio infinito. Ma capirlo oltre il proprio egoismo è troppo difficile per un mondo che è abituato a passare sopra a tutto per ottenere.
Passa il gruppo, sfila lungo il viale principale, qualcuno chiede di non mettersi davanti ai bambini che sono piccoli, non ci vedono. Sono nonni. Non possono prenderli in braccio, li difendono come possono dalle prepotenze che poi nella vita dovranno affrontare per forza. O forse in fin dei conti, pensano sempre che anche quando loro se ne saranno andati, potranno chiedergli aiuto, potranno dirgli che a volte si è ancora troppo piccoli, o si ha veramente troppo cuore per resistere a certe tempeste silenziose come chiuse in colli di bottiglia.
La corsa se ne è andata, le persone sciamano verso il pranzo. Mezzogiorno quasi. Sarà quattro ore che non bevo niente. Al bar prendo una Coca e mentre guardo la fettina di limone sbucciata male che ci galleggia dentro, sento una signora che chiama: Vincenzo.
Alzo gli occhi. C’è un bambino seduto al tavolo di fianco che guarda pensoso l’album di figurine della Panini, mezza Italia c’è impazzita su quegli scambi, ne tiene in mano una, la gira e la rigira con serietà. Sta cercando il posto giusto per incollarla. Poi con pazienza e un’infinita lentezza toglie la carta protettiva e la appiccica sul riquadro.
Vincenzo, lo chiama ancora la mamma.
Il tempo di distogliere un secondo lo sguardo e Vincenzo è sparito. Un piccolo fulmine sparito con il suo prezioso album.
Torno a casa con le nuvole gonfie e bianche, i chiaroscuri di questa valle che sono netti come i cambiamenti. O come le cose che restano per sempre.
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