Estate.
Di quelle giornate con il cielo azzurro senza una sbavatura, con il sole a picco e la gente che cerca il fresco dei portici, il profumo del Pitosforo con i suoi fiorellini bianchi e carnosi e prepotenti.
Lo ammetto, Bergamo non è mai stata tra le mie città preferite eppure oggi sembra diversa, con quello scorcio lassù, con i portici dove stanno i caffè e i lampioni sembrano uova preziose sospese nel vuoto di quel primo pomeriggio caldo ma per niente afoso.

E’ la domenica. I gelati, lo zucchero filato, le biciclette. E il Giro d’Italia. I settantenni aggrappati alle reti, in piedi per ore con gli scarpini da ciclista e la faccia cotta dal sole, pronti a dire a tutti che quello è il Selvino, che quel muretto lì, quella curva là, la conoscono proprio bene. Che a Città Alta era bello andare a vederli passare ma proprio non si riusciva con tutta quella gente. Meglio stare lì, a sbirciare gli schermi dopo l’arrivo, curando le biciclette degli amici al bar, a gridare per una caduta e poi per l’altra. Quintana con la sua sfortuna e Dumoulin che dice ai suoi di rallentare. Un gesto breve con la mano che spiega cosa vuol dire meritare la maglia rosa. Lo chiamano fairplay ma è una parola brutta e fredda per dire che corri da gentiluomo.

C’è la discesa prima del lungo viale d’arrivo, i corridori vengono giù da quello scorcio immobile come un quadro nell’azzurro. Capisci chi ha vinto da chi esulta, i massaggiatori o gli addetti stampa per il resto sfrecciano come fulmini chissà dove. Bob Jungels sparisce chissà dove rapito dai suoi, cerco quei maledetti istanti prima che se ne vadano, mi incastro tra le biciclette della gente che li assale prima dei bus, che chiede le borracce, che si aspetta di riuscire a fermarli per una foto. Questione di minuti poi piano piano si diradano tutti verso il palco, il rettilineo si svuota, restano tre bambini con la maglia della Barhain Merida lunga fino alle ginocchia che saltano qua e là come grilli, i ciclisti continuano ad arrivare a piccole onde ma nessuno è mai chi stanno aspettando. Sembrano contarli ad uno ad uno. Fino a che in lontananza appare Kanstantsin Siutsou.
“Arriva il papi”
Gli corrono incontro, gli si aggrappano. Quante scene ho visto come queste, ma ogni volta mi convinco che l’unico posto dove la delusione, la fatica, la stanchezza possono riposare davvero è l’abbraccio di chi ti vuole bene senza riserve.

Torno a casa senza fretta questa volta, quaranta minuti scarsi senza traffico, una gita della domenica. E come i bambini che guardano fuori dal finestrino del pullman mentre scorre l’autostrada, non riesco ad aspettarmi niente al di fuori di questo andare. In fondo non mi sento di avere un posto sicuro dove riposare e allora l’unica cosa da fare è evitare di fermarsi.

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Posted by:Miriam

Nata in Brianza, nella calda notte del 30 luglio 1991. Scrivo da quando avevo quattordici anni e nel 2012 ho cominciato questo viaggio che si chiama "E mi alzo sui pedali". Ho pubblicato "Voci di Cicala" nel 2013, "La menta e il fiume" nel 2015 e "Come un rock" nel 2019. Mi piacciono i papaveri, il profumo delle foglie di menta e la ninnananna della risacca del lago. A volte scrivo con gli occhi chiusi.

Una risposta a "#GiornidiGiro | Bergamo"

  1. urca, ti ho cercato, me e Stella per autografare la copia di #20000km, sarà per la prossima e comunque leggere qui il blog è talmente un ritrovare le stesse sensazioni che è come aver condiviso la domenica bestiale anche con una amica; anche noi abbiamo vissuto de visu un siparietto familiare, quello di Boaro con moglie e bimba (che poi ha portato sul palco premiazione, noi dopo l’arrivo eravamo là dietro), e poi, anzi prima, vedere l’arrivo sul megaschermo con a pochi metri nientemeno che Johan Museuw “travestito” da spettatore/appassionato (anche un po’ tamarro eh) l’aver condiviso con lui, un monumento vivente, un reciproco sorrisetto tipo “ho capito che hai capito che sono io, proprio io” non ha prezzo: il ciclismo sono tantissime robe come queste, ciao.

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