“Questa è la notte, e quel che ti combina. Non avevo niente da offrire a nessuno, eccetto la mia stessa confusione.”
(Jack Kerouac)
Milano vista così, la periferia che scivola via dal finestrino con le sue luci del sabato sera e uno scroscio di pioggia improvvisa a rendere l’asfalto lucido. Il gasometro, la Bovisa e l’odore di canne e di birra mischiata all’asfalto della prima sera di ottobre. E il resto. Un deserto come quello del Passante Ferroviario alle undici di sera. Qualcuno che torna, qualcuno che non vorrebbe tornare. Il vuoto. E’ la notte, ecco cosa ti fa.
Non sono stanca, non sono niente. Anzi sono tutte quelle cose sbocconcellate a metà, i brividi che come fiume vanno ovunque, i battiti che a volte puoi sentire fino alla testa, li puoi contare, per quanto vanno veloci e per quanto fanno male. Sono tutte quelle cose che rimangono dentro. Come fuoco, come lame. Come carezze, come un colpo secco di pistola nel mezzo di tutto.
E’ la notte, ecco cosa ti fa.
Jack saprebbe come usare la confusione. Come usare la malinconia, trasformarla in dolcezza. Forse…Beh, forse in questo sono un po’ brava anche io. La dolcezza è una delle poche cose che so di avere.
Jack saprebbe come esorcizzare certe mattine in cui tutto ricomincia come non vuoi. Forse partendo, tornando sulla strada. Di nuovo, e ancora.
In fin dei conti il ciclismo è questo, cura tutto con una striscia d’asfalto, da un arrivo ad un traguardo. In mezzo ci sei tu, devi vedertela da solo, con le salite e pure con le discese. La prima cosa che ti viene chiesta non è essere un vincente ma saper stare in sella. Saper stare in mezzo al gruppo. Saper stringere i denti, anche quando tutto il resto urla che non puoi, non ce la fai ad andare oltre.
Chi stabilisce i nostri limiti?
Nessuno, neanche noi.
Mi sembra che da mattina a sera sia passata un’ eternità. O forse un soffio. Non lo so più. Mentre scorre la città ripenso al lago grigio, quasi bianco, al suo volto slavato e appena increspato sotto a un cielo di nuvole. Il Lombardia che tutte le feste si porta via, persino queste ultime corse senza respiro, guardate con gli occhi di chi pensa ad altro. Ma questo sport mi conosce, sa tutto. Mi ha visto troppe volte per non capire che non sono la stessa, che questa volta è diverso. Sa che ho bisogno di riascoltare il suo amore, sa che ho un profondo bisogno di sapere che esistono strade alternative.
Le luci mi sembrano ciclisti che partono. Como che li saluta, un bambino che fa un selfie con il ciclista di casa e lo guarda con certi occhi che fanno venire le lacrime. Non credo ci sia niente di più bello di uno sguardo che dice la verità.
Chissà perché questa cosa è così. Malinconica come se fosse sempre l’ultima anche se per molti non lo è. E’ un confine, uno di quelli netti. Un confine per gli abbracci, i saluti, i baci, le ultime occasioni per mantenere promesse a sé stessi. Che io lo conosco bene questo sapore amaro, ci sono abituata praticamente da sempre. Felice per un istante, e sai che quell’istante non durerà. Allora sono diventata un sacco brava a tenermi tutto quello che posso, a bermi le cose d’un fiato perché so che poi soffrirò la sete come uno che si è perso nel deserto per giorni.
E Bergamo è strana, non so se la capirò mai questa città. Non so se riuscirà mai a piacermi davvero, come mi piacciono certe città in cui sento che resta un pezzo di me. Qui non c’è niente. Ma forse è anche meglio così. E’ come se questi ultimi chilometri passassero nel vuoto di questa giornata di cielo bianco, di sole afoso per metà. Sono tutti contro le reti metalliche a guardare lo schermo grande quanto una televisione della cucina. A guardare le immagini mute perché la telecronaca è troppo bassa per quel pomeriggio di gente. Si indovinano i nomi, si indovinano gli scatti. C’è quest’aria che non so definire, promette pioggia ma non pioverà. Uno sguardo allo schermo e uno all’arrivo. La verità è che quando vai alle corse non sai minimamente cosa succede durante la corsa. Uno si potrebbe anche chiedere perché ci vado.
E allora penso a quell’uragano dopo la linea bianca, appena subito dopo. La vita che riprende dopo essere stata interrotta per un millesimo di secondo.
E come se ti chiedessero di spiegare l’amore.
Ti sembra di non capire più niente ma è in quel momento che capisci tutto.
E quando vedo Diego in lacrime a trecento metri dalla linea bianca con tutti attorno penso che abbia vinto Il Lombardia. Penso che pianga di felicità, che siano la fatica e la paura a parlare per lui. Sono tutti lì, gli riservano le attenzioni che di solito si tengono per il vincitore.
Invece no. Di nuovo il ciclismo ribalta gli ordini, come sa fare lui. Quel modo lì che un po’ ti spiazza come certi finali che non ti aspettavi. Quel solito modo lì che usa la vita, che ti fa incazzare.
Però c’è quella gente dietro le griglie che si mette a fare i cori da stadio:
Die-go, Die-go, Die-go, Die-go.
Ma neanche ai vincenti. Neanche al povero Chaves che sorride a tutti persino quando perde.
C’è quella gente che vorrebbe abbracciarlo, toccarlo, dargli una pacca sulla spalla. Così com’è, piegato sulla bici a piangere. Diego che ogni volta che lo saluti dopo il traguardo si scusa perché è sudato, sporco di chilometri. Cose che importano solo a chi non sa cosa vuol dire tutto questo. Tutto questo viaggio infinito per poi finirla a tarallucci e vino.
Vorrebbe dire provare a spiegare l’amore. Ed è una cosa che non si può spiegare.
I suoi tifosi lo aspettano al bus e cercano di convincerlo che per loro è arrivato primo. E poi c’è Alessandra che lo abbraccia. Lontano dal traguardo, da tutta quella confusione, da quella delusione che continua a bruciare. Che alla fine è così, nessuno vuole il tuo bene più sinceramente di quelli che ti vogliono bene. Sono le uniche persone che raccolgono i secondi posti come gli ultimi, come i primi. Che darebbero il sangue per stare in silenzio e vederti brillare.
Milano, quante volte mi hai vista stracciata dai chilometri percorsi a seguire l’istinto. Quante sere sono emersa dalla stazione con il sorriso cucito per metà. Sei sempre stata in silenzio, a guardarmi passare tra quelli che si baciano prima di partire e i vucumprà che lanciano in aria i giochi luminosi per attirare i bambini.
Stanotte hai il solito odore delle cose che già mancano. Stanotte sogno un’ultima volta che non sia mai più l’ultima.
Non smetterò di amarti, neanche adesso che arriva l’inverno. Neanche adesso che le foglie si seccano all’ultimo sole o si raggrinziscono nell’aria umida della sera.
Per altre mille stagioni non smetterò di scriverti, perché scrivere e amare in fin dei conti sono la stessa cosa.
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