Le colline imbevute della foschia settembrina, le viti tutte in fila, verdi e oro nel sole pacato come questa terra. Sotto le loro foglie c’è l’uva piccola e nera e rotonda e dolcissima che respira quest’aria d’autunno. Forse qualcuno la ritroverà in un bicchiere di vino, durante una sera d’inverno. Forse qualcuno risentirà il sapore di una mattina così, con il sole caldo e l’aria frizzante.
Raccontano storie nel silenzio, le colline. Lo sapevano bene quelli che le hanno scritte, che hanno scritto la loro anima per spiegarla al mondo. Un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via. E forse di tornare. Anguilla, la Luna e i Falò, un luogo crudo e sognante del quale ti innamori a distanza e poi quando lo vedi.
Il ciclismo è un po’ come il vino, parla del territorio con una lingua tutta sua. La strada è il filo, i ciclisti il sangue che scorre, le partenze e gli arrivi il cuore. E le colline raccontano la storia della nostra vita, perché c’è un istante, in ogni corsa, che ci appartiene, che parla a noi, proprio a noi.
Che io questo Rossetto non l’ho mai sentito nominare, sono sincera. Ma oggi lo ripetono tutti. Parlano della sua fuga. Parlano di lui sotto i portici di Agliè che mi sembra direttamente uscita da un film degli anni cinquanta. Stessi bar con le fette di torta già preparate che aspettano sotto le cupole di vetro e i signori che si siedono a mangiare la coppetta di gelato faccia lei, basta che sia tutto di frutta.
Insomma questo Rossetto non l’ho mai sentito nominare. Eppure tutti ne parlano come al solito, come si parla di un fuggitivo che non ha speranza. Perché è uno sconosciuto, perchè la fuga non la faranno arrivare figuriamoci. Passa il suo nome più e più volte, tra quelli che sanno tutto e quelli che sanno a malapena che lì arriva una corsa.
Non arriva fin qui la sofferenza di portare avanti una fuga da solo. Le gambe spezzate a metà, l’aria in faccia presa tutta, senza cambi, la guerra con i minuti e poi con i secondi. Non arriva niente. Dei nostri sforzi, delle nostre lacrime, delle nostre fatiche. E’ una legge. Mia nonna diceva che bisognava dare a quelli che ridono e togliere a quelli che piangono. Il ciclismo è uno sport dove si soffre davvero. E dove la sofferenza è muta, proprio come quella vera.
Non arriva fin qui, la sofferenza di questo Rossetto. Francese. E’ un fuggitivo come gli altri. Magari gli hanno detto che il finale era così, all’ombra di un castello di fate. Magari lui ci sta pensando. O magari no. Magari è solo un modo per farsi vedere, per farsi conoscere. E’ sempre una lotta all’ultimo sangue, per tutto. Come l’esistenza, tutta quanta fino in fondo.
Fino a quell’ultimo maledetto chilometro. Sempre così. A un soffio da quel castello, ad un solo chilometro. La solita fregatura. Nizzolo e Gaviria, Gaviria e Nizzolo, Nizzolo su Gaviria. Sfilano per quella stradina stretta di paese tra le case antiche, le cantine chiuse da un pezzo con le porte di legno consumate dal sole che ci batte tutti i pomeriggi. Sfilano tutti. Non so neanche dov’è finito Rossetto, non saprei neanche trovarlo. Eppure, come al solito, non riesco a riconoscermi nei vincenti. Io sono quel Rossetto che sfila anonimo tra la gente e ha una voglia matta di buttarsi sotto la doccia per mandar via l’amaro di quella giornata.
Non basta Stéphane. Non basta, te lo giuro.
E’ che l’ultimo chilometro sbagliato su altri cento giusti non te lo levi più dalla testa. E’ che certe delusioni non hanno spiegazioni. Semplicemente è così. Non esiste che ci metti un quarto di cuore. O tutto o niente, non ci sono mezze misure.
Non basta Stéphane, non basta una doccia. Non basterebbe nemmeno un viaggio su Marte.
Che poi non ce lo meritiamo nemmeno quel chilometro portato via all’ultimo, come se la terra crollasse d’improvviso. Se penso a tutte le volte che abbiamo portato pazienza, che abbiamo sperato, che siamo stati felici come se il futuro attendesse solo noi. Se penso a tutte le volte che siamo andati incontro ai giorni pensando che fossero quelli giusti. I migliori. Se penso a questo, mi viene da dire che quel cazzo di chilometro spettava a noi. Forse per una volta ce lo saremmo meritato. Per una volta qualcosa poteva andare bene. Per una volta. Nessun universo avrebbe protestato.
No, non mi riconosco nemmeno un po’ nei vincenti. Li ammiro, certo. Ma continuo ad immedesimarmi nei folli delusi che sciamano verso casa senza coppe, senza fiori, senza gente che li insegue. E non c’è una gran morale da cercare, forse nemmeno esiste. Forse il fatto di dare un senso a tutto è solo un modo che abbiamo inventato per riempire il vuoto improvviso, la mancanza che spezza a metà.
Entro in una pasticceria e compro un sacchetto di Torcetti che tengono in una vetrina chiusa da due ante strane di vetro che la fanno sembrare un armadio di una sacrestia.
Apro il sacchetto. Sono burrosi e fuori croccanti, quasi caramellati. Per me li fanno buoni solo qui.
Scende un pomeriggio di fine settembre in quel paesino uscito da un film e quasi più nessuno si ricorda che è passata la corsa. Qualcuno pensa a cosa mangiare stasera.
Io penso che alla fine rimani comunque un vincente per quelli che ti amano. Quando va bene e quando va male. Quando i riflettori sono accesi ma soprattutto quando poi si spegneranno. E’ questo che conta, sapere che nella folla di gente che va e che viene c’è sempre qualcuno che sarà lì per te. Che conosce i tuoi lati migliori e te li ricorda quando credi di averli dimenticati.
Allora anche quell’ultimo chilometro avrà un senso.