Sul versante della montagna che si spegne nella sera, si accende una fila di luci come lanternine che segnano la strada deserta. E in lontananza, tra i pini scuri, palpitano i paesini nell’azzurrino dell’ultimissima luce.
C’è un leggero tintinnio di forchette, qualcuno mangia sulle terrazze. C’è il rumore insistente dei grilli. Della mia cena, salvo la tortina al formaggio e le lampade della sala ristorante. Per il resto, l’importante è avere questo silenzio dopo una giornata di Tour dove ho mantenuto la cara vecchia regola d’oro della transenna. Mai lasciare il posto di comando. A costo di trovarsi schiacciata da un perfetto sconosciuto con la sua pancia nella schiena per tre ore, sotto il sole.
Ma va bene così. Va bene anche fare cinque ore per vedere il ciclismo, tra le nevi perenni e le mucche che pascolano nelle chiazze di verde ancora più verdi. Certe volte viaggiamo per mettere un po’ di distanza tra noi e le cose. Specialmente quando le cose sono complicate, quando aspetti il meglio e, allo stesso tempo, ne hai paura.
Le luci brillano sulle montagne scure adesso.
Non è vero niente. Che la distanza ti fa dimenticare tutto. Sono stronzate, non è vero.
Succede come qui, dove la gente si accalca sulle transenne, i bambini gridano selfie, selfie please oppure Le bidon!
Gridano a tutti, si aggrappano come scimmiette, tendono le mani solo per avere qualcosa, qualcosa che gli ricordi quel giorno. A qualcuno basta anche la lattina della Sprite mezza vuota, schiacciata dalle mani. Basta come reliquia sacra di quell’istante.
A quante, a quante cose siamo aggrappati noi. Certe esistono solo nella nostra testa, nessuno le può toccare ma noi sì. Sprite mezze vuote che a noi sembrano un pezzettino di paradiso. E’ sempre così, per chi sa essere felice con poco.
I massaggiatori vanno avanti e indietro con la maglia appiccicata alla schiena per il sudore. Qualcuno ha le infradito. C’è profumo di crema solare, la gente la spalma a chili sulle gambe, sulle braccia. E’ il cuore di luglio che sale dall’asfalto, si mischia all’aria di montagna che sa di legno, di erba.
Monsieur! Monsieur a pois rouges!
E’ una bambina. Chiama Rafa Majka che è davanti a lei, proprio davanti a lei e sta parlando con due massaggiatori. Lei sporge il braccio fuori dalla transenna, tende un cappellino giallo e una penna.
Monsieur! Majka! Monsieur!
Un signore con i baffi bianchi la aiuta, lo chiama anche lui.
Monsieur!
E lei ha sempre quella voce, non osa urlare. E’ una preghiera innocente che continua per qualche minuto. Nessuna insistenza, molta tenerezza.
Majka se ne va. Non uno sguardo, niente. La bambina sparisce. Avrei voluto dirle qualcosa, avrei voluto dirle di aspettare qualche altro ciclista, che forse sarebbe andata meglio. Succede così, non sono cattiverie. Solo succede che tra la gente, una voce si perda. Eppure non l’ho più vista.
Ho capito solo adesso che voleva lui. Voleva il signore a pois rouge. Poi Sagan passa, fa un gran casino, si ferma da tutti, i bambini scattano selfie come se non ci fosse un domani. Magari è abbastanza per dimenticare. E invece no. Invece continuo a pensare che anche noi siamo come quella bambina a volte. Quando vogliamo bene, specialmente. Abbiamo paura a dire le cose troppo a voce alta, abbiamo quella timidezza ghiacciata che forse è solo il terrore di rimanerci male, di rimanere con il braccio teso, a chiedere anche solo un istante qualcosa che non arriverà.
Ci sono le luci che brillano laggiù nella valle. E un cane che abbaia lontano, sopra i grilli e sopra il silenzio. Questa notte è uno specchio. E il ciclismo è ancora una volta una lezione. Che bisogna gridare un po’ più forte. Che non bisognerebbe avere paura di fare le cose, anche piccole, con più amore. Mai.
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♥ #OnTheTour | Mercì
quanto di te …..in queste righe…