Guardo le nuvole blu che si sfilacciano sul tramonto. L’autostrada è già una lingua nera dove quasi si riflettono le luci delle automobili. Certe volte il tempo si dilata e sembra un secolo che non torni a casa. Poi son fatta così, mi viene la nostalgia due secondi dopo che lascio un posto. Mi incazzo, magari, come è successo anche questa volta. Mi faccio diecimila domande e non so se è un bene o un no. Qualcuno dice di sì, che altrimenti resteresti sempre nello stesso posto. Ma forse ogni tanto bisognerebbe fare solo quello che sentiamo. Lasciare le briglie e fidarsi dell’istinto.
Di certo capita che io mi fidi persino fin troppo. Come quando vedo un cartello in cui dicono che chiudono le strade alle undici e mezza e poi guardo la cartina e mi convinco che non è vero.
Ma andiamo per ordine.
I mini pain au chocolat e la crepes calda per colazione dopo la sveglia suonata alle sei e mezza sono rincuoranti come il sole che sbuca in piazza ad Albertville alle nove di mattina dopo la pioggia.
Le bandierine gialle, verdi e a pois sembrano certe file di lucine nelle feste di paese. La partenza. Ci voglio restare poco, giusto per salutare due o tre persone, respirare la solita aria lievemente caotica che si mischia al profumo delle baguette che esce dalle boulangerie. E invece niente. Alle dieci e mezza sono già consapevole che sarà impossibile. Non riesci ad andartene quando ancora i corridori sono qui, quando si fermano a fare le foto, a firmare gli autografi e fanno sorrisi sopra la tensione. Non ci riesci. Qualcuno fa i rulli nell’attesa.
Ieri sera quel maledetto cartello diceva che chiudevano la strada per Megeve alle undici e trenta. Beh, inutile anche pensarci. Sono io che non voglio crederci visto che l’orologio fa la una meno un quarto. Ci deve essere una strada per arrivare su, almeno fino all’inizio della salita che porta a Saint-Gervais.
E invece non c’è.
E’ quello che cerca di dirmi con gli occhi un gendarme al quale ho chiesto se potevo parlare in inglese.
No, french.
Ma va? Che io di francese so solo merci e au revoir. Niente inglese, italiano figuriamoci, a gesti nemmeno. Addio arrivo. Il cartello dice che riaprono tutto alle quindici e trenta. Addio arrivo, appunto.
Ho la mia solita voglia di mandare a quel paese tutti quanti, tornare indietro, mangiarmi uno di quei toast paradisiaci pieni di besciamella e formaggio e tornare a casa. Ma è giusto un attimo, basta contare fino a dieci. Anche venti. Vedo la gente che si avvia a piedi. C’è una salita, una esse, un tornantello. Meglio di niente. Passano le ammiraglie, una della Bora-Argon mi si avvicina.
Bonjour, dice. E mi allunga una borraccia. A volte il ciclismo mi stupisce, sembra che sappia come parlarmi in modi impensati. La prendo, sorrido.
Thanks, dico. Non so più che lingua parlare. Forse non serve nemmeno pensarci. Ci sono gentilezze che sono universali.
Sul tornantello c’è una casa, un gruppetto di gente sta mangiando sul terrazzino tra le rose e la lavanda. Qualcuno è sdraiato all’ombra, una signora legge il giornale e con il gomito regge un ombrello per ripararsi dal sole. Forse tutto sommato è meglio così.
Forse a volte bisogna ascoltare i segnali. Il mio posto è qui. Dove la fatica si sente sopra ogni cosa e non si può nascondere nemmeno dietro gli occhiali scuri. Resta questo, se spogli il ciclismo di tutto il resto. Resta la gente che si arrampica ovunque per guardare la fatica. Nessun selfie, nessun autografo. Per quell’istante, c’è solo l’incoraggiamento da una parte e il silenzio dall’altra. Che a prima vista può sembrare niente e invece è tutto. Come tutte le cose importanti, come certe complicità che esistono tra persone che si comprendono. Basta uno sguardo. A volte basta persino un silenzio.
Il Tour de France passa su questo tornante tra le lavande e un piccolo orto a terrazze. E neanche vedere la maglia gialla lì in mezzo riesce a convincermi che esista davvero un elite o un criterio che non siano i soldi per definire una corsa migliore o peggiore. Tutte hanno lo stesso destino. E non è certo quello dei buffet privati dove ingozzarsi nell’attesa di vedere l’arrivo.
Non mi dispiace sapere da Twitter che tutto quello che doveva succedere in tre settimane è successo nell’ultima ascesa prima del traguardo. Seguo l’arrivo di Bardet mentre sfilano le montagne della Savoia dal finestrino, illuminate da una luce che le fa sembrare surreali. Su al San Bernardino si sentono i fischi delle marmotte che si nascondono chissà dove.
Non mi dispiace niente, alla fine. Non ci sono domande da farsi stasera. Bisogna solo ricordarsi che finché ci sarà qualcosa di vero da raccontare ne varrà sempre la pena.
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