L’ultimo chilometro, la curva secca a gomito, una caduta subito dopo e la testa del gruppo con quella solita adrenalina prima di una volata importante. La gente, tanta gente. Il sole strano di un pomeriggio in Normandia.
Sono Mark Cavendish e non so neanche quante tappe del Tour de France ho fatto in vita mia. Questa è una delle tante, ma non è una qualunque.
Sono Mark Cavendish e ho vinto praticamente tutto. Tranne una maglia gialla. A pensarci sarebbe anche difficile ricordarsi tutte le volate che ho fatto. Un missile ovunque, una volta persino sui Campi Elisi. Le cercavo tutte, perché è così che deve fare un ciclista. La carriera dura un soffio, non devi sprecare neanche un istante. E d’altronde quando sei un velocista lo impari fin da piccolo: negli ultimi metri conta tutto, ogni dettaglio, ogni ronzio, ogni intuizione. Per un istante vinci o perdi. Allora impari a risparmiare quando si può, a regalare quando si deve. Impari a fidarti del treno, dei ragazzi che sono con te.
Adesso dicono che la mia parabola sta finendo, che l’Era degli sprinter sta cambiando, che questa squadra non è più all’altezza del vecchio Cav. Eppure il destino intreccia ancora fili, mi fa credere che niente sia cambiato. C’è ancora Mark Renshaw che, a dispetto di quello che dicono tutti, non è mai stato il mio ultimo uomo. E’ mio amico e lo è ancora adesso. Che mancano pochi metri e mi disegna la rotta tra Kittel e Greipel. E Sagan che è partito come un fulmine ma troppo presto. E’ di nuovo qua. Io e lui, che siamo stati divisi e niente, in realtà, è riuscito a dividere l’intesa. La corsa non è la vita. O forse sì. Forse alla fine ti restano solo le cose e le persone importanti. Te stesso e quelli che ti hanno sempre capito. Da vincente o meno.
Sono Mark Cavendish e questi ultimi metri sono il mio biglietto per la mia prima maglia gialla. E questa non è una volata come le altre, una di quelle del mucchio che non mi ricorderò perché ero troppo appannato dall’adrenalina, dalla foga, dai denti stretti, da quella maledetta velocità. Questa no. Questa volata è una di quelle che mi terrò dentro fiato per fiato, metro per metro. Questo limbo non è come gli altri, ha un sapore diverso. L’abbraccio con Mark, un altro me stesso. Fratello. Che solo un fratello può tornare a sentire quel feeling dopo tanti anni. Distingui poco quando arrivi così. A malapena ti rendi conto che hai vinto ma sai che vorresti abbracciare tutti. Gridare, ridere e gridare. Sarò pure il vecchio Cav per tutti quelli là fuori ma per me no. Nessuno è lo stesso quando torna a vincere. C’è un confine tra il prima e il dopo: è sottile ma profondo come una voragine nella roccia.
Sono Mark Cavendish e questa è mia figlia Delilah. Le bacio i capelli, hanno il suo odore di bimba, lo stesso di quando era minuscola e la portavo sul podio perché ero orgoglioso. Poi hanno cominciato a farlo anche tutti gli altri. Ma io non ho mai voluto mostrarla come un fantoccio, come una cosina per farmi pubblicità. Era questo amore qui. Spontaneo. Lei è abituata ad abbracciare suo padre sudato e quasi senza voce. E io sono abituato ad averla accanto, a sentire il suo profumo in mezzo a quello degli arrivi.
Vuole i fiori, sa che li avrà.
La abbraccio ancora. Mi serve, quell’abbraccio. A capire che le cose importanti possono essere racchiuse tutte insieme se troviamo l’equilibrio giusto. Che tutto può essere perfetto se ascoltiamo solo quello che serve davvero per andare avanti.
Ecco qui, questa è la mia maglia gialla. La prima. Tutte le prime volte ti fanno sorridere come un bambino, come se non avessi mai sorriso in vita tua fino a quel momento. Non devo dire niente a Delilah: lei sa che sul palco si saluta, si sorride. Prende i suoi fiori, li alza. Sa già tutto, sa come comportarsi.
Sono Mark Cavendish, dicevano che dovevo smettere, che avevo fatto abbastanza, eppure ho addosso la mia prima maglia gialla e tengo per mano mia figlia che ha i miei stessi occhi e non ha mai smesso di credere in me.
E adesso chiedetemi se sono felice.
