Imerio. Un nome che fa pensare ai protagonisti di certi romanzi del ‘900, cuciti addosso a personaggi belli, di gran classe, che piacciono alle donne di tutte le età.
E Imerio Massignan, con il suo mento squadrato, i capelli scuri e gli occhi dolci, seri, è stato, forse, un vero personaggio da romanzo. Uno scalatore di razza purissima, col fisico asciutto, con le gambe secche che gli facevano amare la montagna, le salite impossibili, quelle che ti strappano via i polmoni.

Nel 1960, dopo la scomparsa di Fausto Coppi, i cuori tristi della gente, cercavano un nuovo ragazzo da amare, che sostituisse la smorfia di fatica di Fausto, sulle salite di sempre. Che portasse ancora il corpo disperatamente piegato su una bicicletta in cima, da solo. Sulle strade del Giro di quell’anno trovarono Imerio.

Per la prima volta, in quell’edizione della corsa rosa, i corridori avrebbero dovuto arrampicarsi su, per le tremende asperità del Passo Gavia, su una strada ancora sterrata a cui gli alpini avevano lavorato il giorno prima, per liberare il passo dalla neve abbondante. Qualcuno, prima della partenza, fa il nome di Massignan, altri di Anquetil, di Gaul: la montagna, come diceva Marco Pantani, è per pochi.

E la corona per il suo re è fatta di sudore, di fatica, di denti stretti. Imerio, quella corona, la vuole con tutte le sue forze. Sa che il Gavia non è clemente, che in cima non ci sarà aria di maggio ma, a volte, per andare verso un sogno, si attraversa l’inverno. E quando scatta, ai piedi della salita, sa che tutto quello che deve fare è andare, pedalare, sentire che le ruote non accarezzano più l’asfalto ma digrignano sotto la terra nuda della montagna. E’ da solo, nella sua scia ci sono solo Nencini, Gaul e Panbianco. Il Gavia, lassù, aspetta di sapere chi arriverà per primo, chi darà l’ultimo colpo di pedale, davanti a tutti, prima della discesa fino a Bormio. Imerio sale sempre di più e sa di essere a un passo dal sogno, le sue gambe sono nate così, hanno la vocazione della sofferenza e ai tifosi coraggiosi che sono saliti fin lì, ai bordi della strada, tra la neve e il freddo, si riscalda il cuore. Si ingannano, forse, che la figura laggiù, che vedono arrivare, sia quella del loro Fausto e si commuovono vedendo arrivare “Gamba secca” come l’aveva soprannominato Pavesi, per il suo fisico e il suo modo di pedalare dovuto al fatto di avere una gamba un poco più corta dell’altra. E’ Imerio che, adesso, hanno negli occhi in quel gelido pomeriggio. E’ Imerio che doma la montagna, che la conosce, ne sente il respiro, il battito lento dei suoi millenni. E’ Imerio che scollina da solo, tra la pioggia che si insidia tra i suoi nervi tesi, nella sua anima da scalatore. Lo striscione dell’arrivo, ora, sembra ad un soffio perché la discesa è un attimo, si va veloce, non è come la salita che è fatta di pedalate pesanti, di metri interminabili. E non importa se sul Gavia c’è il freddo e la neve: il sogno è lì.

Ma quell’ultimo tratto che porta a Bormio non è clemente con Imerio: le ruote che hanno sopportato l’arrampicata fino a lì, lo tradiscono. Fora una volta, poi due. E la discesa diventa amara, ostile, perché davanti a lui, adesso, ci sono le spalle di Charly Gaul. Il sogno acquista tratti imprecisi. Ma le gambe non ne vogliono sapere: quando si accarezza la felicità così da vicino, quando ipotechi con il sudore il destino non si vuole credere che il tuo posto lo prenderà qualcun altro. Imerio insegue Gaul fino al traguardo e lo vede da lontano. Ma non c’è niente da fare. Quattordici secondi rimarranno tra loro due. Secondi che ammazzano la scalata tra i cuori della gente, la fatica di essere stato solo, con il rumore assordante del suo respiro affannoso, con il mondo sotto di lui e il cielo che lo aspettava. Secondi che bruciano come le lacrime che scivolano giù sulle guance scavate dalla fatica, che si fermano sul mento squadrato, da protagonista di romanzo.

I romanzi del ciclismo, le sue storie vanno raccontate tutte. Tutte, fin nelle viscere: è un loro diritto. Anche questa che non ha lieto fine. Ma le due ruote, si sa, hanno il sapore della vita vera. E nella vita capita di coltivare un sogno in una serra calda di speranze, curarlo e farlo crescere per molto tempo. Poi arriva un vento gelido, una mano avida e tutto svanisce. Non importa se sono secondi o ore: restano sempre le lacrime da ingoiare. E la malinconia del sogno perduto.

 

Posted by:Miriam

Nata in Brianza, nella calda notte del 30 luglio 1991. Scrivo da quando avevo quattordici anni e nel 2012 ho cominciato questo viaggio che si chiama "E mi alzo sui pedali". Ho pubblicato "Voci di Cicala" nel 2013, "La menta e il fiume" nel 2015 e "Come un rock" nel 2019. Mi piacciono i papaveri, il profumo delle foglie di menta e la ninnananna della risacca del lago. A volte scrivo con gli occhi chiusi.

3 risposte a "Imerio e la malinconia dei sogni perduti."

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