Dicono che il ciclismo sia fatto di storie. Così tante che non si fa in tempo a raccontarle tutte. Anche io, oggi, voglio scriverne una: piccola piccola, ambientata qui, in Brianza, dove stamattina il cielo è scuro, la terra zuppa di pioggia e il termometro segna cinque gradi. La storia di un ragazzo a bordo strada, fermo, con la sua bicicletta, con la divisa della squadra appiccicata alla pelle, fradicia. I denti che battono per il freddo, le mani tremanti, congelate, incapaci persino di mettere gli occhiali nelle taschine. E un’ammiraglia che non arriva mai, un traguardo che non si sa dov’è e quella pioggia che continua a venire giù, a entrare nelle ossa che non ce la fanno più. E’ lì, al bordo strada, in una domenica grigia e fredda, il ciclismo. E’ lì, il nostro ciclismo zuppo, fragile. E’ lì ed ha la forma più giusta: quella di un ragazzo che si è alzato presto e non ha detto: “oggi è domenica, sto a letto”, si è preso tutta quell’acqua per poi salire su un’ammiraglia, senza la forza, appiccicando, forse, le mani al cruscotto, di dove esce l’aria calda. Quella di un ragazzo che aspetta qualcuno che si fermi. Sì, è così, questo nostro ciclismo, chiede una cosa sola, prima di tutto il resto: una coperta calda che si chiama umanità.

Sì, perché i manifesti sono per i letterati. Per quelli che stanno davanti al foglio bianco con una tazza di caffè fumante e un caminetto acceso. E le gogne sono per gli assassini. I ciclisti non sono né letterati, né assassini. Sono un po’ poeti, a volte, è vero. Ma non con la penna e l’inchiostro: con le gambe, con le ruote, con le lacrime e con il cuore. Poeti che si amano, quando sono nel sole, e che si calpestano quando qualcuno gli getta del fango addosso. Poeti infreddoliti dai titoli minacciosi di chi, forse, non li ha mai capiti, congelati dalle dita puntate di chi diceva: “non ti preoccupare, adesso ci sono qua io”.

Abbandonati lì, sul ciglio di una strada, senza traguardo e senza sostegno, fradici di tutta la vergogna che i potenti non possono portare.

Io non lo so il nome di quel ragazzo ma so quelli che ci sono sui giornali, osannati e sotterrati dalle stesse penne. So che, mentre la gente in giacca e cravatta, coi pantaloni appena stirati dalla tintoria, si passa le raccomandazioni sotto i tavoli, un ragazzo muore di freddo ai bordi di una strada. Il ciclismo sta morendo. Per il freddo, per il cinismo, forse anche per l’incoscienza. Forse anche per il fatto di aver dimenticato che, su quelle biciclette, al vento, al freddo, al caldo asfissiante ci sono degli uomini. E non sarà il prenderli a bastonate che li salverà. Ma quella coperta lì, l’umanità, che li farà sentire meno soli. Perché, quando si sbaglia, purtroppo, si è soli. E chi ci lascia da soli è il più colpevole di tutti.

Posted by:Miriam

Nata in Brianza, nella calda notte del 30 luglio 1991. Scrivo da quando avevo quattordici anni e nel 2012 ho cominciato questo viaggio che si chiama "E mi alzo sui pedali". Ho pubblicato "Voci di Cicala" nel 2013, "La menta e il fiume" nel 2015 e "Come un rock" nel 2019. Mi piacciono i papaveri, il profumo delle foglie di menta e la ninnananna della risacca del lago. A volte scrivo con gli occhi chiusi.

3 risposte a "I manifesti, le gogne e il ciclismo che muore solo."

  1. se la coperta calda fatta di umanita’ potesse scaldare il freddo disprezzo di chi ora e’ stato gettato nel fango ecco..vorrei essere io quella coperta……non aggiungo altro ma il riferimento e’ facilmente intuibile…..

  2. mai una metafora è più centrata…lo dico da tifoso…ma anche da ciclista praticante…la fatica sulla bici è la fatica delle vita…bella ma anche crudele…

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