“Di questo sport mi interessa il modo in cui implica la vicenda umana”
(Sergio Zavoli)
Scrivo così. A caldo. Non ho visto l’arrivo di ieri perché ero sul percorso, a Cavalese e poi a Tesero, sulle strade colorate di rosa, con la gente in attesa. So che ha vinto Kreuzinger, qualcuno mi ha detto che si è piantato subito, appena varcata la linea del traguardo. Ho sentito che Basso ha perso terreno, che Pirazzi è stato in fuga dal chilometro undici. Ma, almeno stavolta, niente vincitori. Nessuna polemica. Nessun pronostico. Solo la “vicenda umana”, come diceva Zavoli.
C’è qualcosa che si percepisce, mentre si segue una corsa, anche nelle retrovie. Qualcosa che assomiglia ad un grande e placido romanzo che comincia in grande stile e si avvicina, dolcemente, alla fine. Ieri, nell’aria di montagna, tra le distese verdi e i pini che arrivano fino al cielo, i corridori sono passati veloci, verso Pampeago. I primi alla ricerca della vetta, i secondi nel tentativo di raggiungerli e gli ultimi…Già, è gli ultimi? Beh, gli ultimi sono quelli che arrivano piano piano, che passano tra le ali di folla che, pochi minuti prima, avevano applaudito gli eroi in testa. Che si prendono qualche applauso, quelli sinceri. Che ascoltano gli incoraggiamenti di qualcuno che gli urla: “Bravo, dai che manca poco. Manca poco”.
Bugie. Ne manca di strada, prima di raggiungere la vetta. Ne manca ancora di più se hai i denti stretti, le gambe dure e il fondoschiena rotto. Eppure è lì. E’ lì quella “vicenda umana” di cui parlava Zavoli. Su quelle facce che forse ai fotografi non interessano perché non sono in fuga, non sono i “big”. Sono uomini. Uomini in difficoltà. E, tra quelle biciclette silenziose, che non sfrecciano via, tra quelle pedalate legnose che mettono sudore sull’asfalto ci sono così tante storie che non basterebbe un libro a raccontarle.
Ieri mi ha colpito vedere Andrea Guardini, solo, lontano dal gruppo, lui che, il giorno prima, aveva esultato, sulla linea bianca, davanti al campione del mondo. Mi ha colpito quell’umiltà, quell’inchinarsi davanti alla strada, quel dire, con la sua smorfia di fatica: “Sì, la salita è più forte di me”. E poi vedere Eros Capecchi e gli uomini della Liquigas – Cannondale che, con fiducia cieca verso il loro capitano, hanno dato l’anima, hanno tirato il gruppo fino allo sfinimento. Indietro anche loro, con quelli che, forse, da un certo punto di vista, fanno più storia dei primi. Ma c’è qualcosa, un gesto semplice, che mi ha fatto sentire tutta quell’umanità che, in molti altri sport, non esiste. Un uomo dell’Astana stava a lato della strada per dare le borracce e,ogni volta che, giustamente, vedeva i corridori della squadra kazaka, agitava la borraccia che aveva in mano. Quando, sfinito dopo aver attaccato ben due volte, è passato Valerio Agnoli ha teso l’acqua anche a lui. A lui che è di un’altra squadra, che è il gregario numero uno di un capitano avversario. Forse la mente va alla famosa foto di Coppi e Bartali. Chi ha passato a chi quella borraccia? Nessuno lo saprà mai. Ma quello che conta davvero è ciò che questi gesti rappresentano. E’ questo, forse, che voleva dire Zavoli. Le “vicende umane” che fanno del ciclismo una disciplina a parte, che dimostrano quanto uniscano il dolore e la fatica. Questo è quello che mi voglio portare dentro di ieri, assieme alla festa, alle risate, al divertimento. Quell’immagine della borraccia azzurra e della mano con il guantino verde che lo afferra me la voglio tenere con me, per ricordarmi sempre cosa vuol dire veramente il ciclismo.
Bellissima storia, bellissimo gesto. Ecco perche amo il ciclismo!