Giorgio Albani è stato professionista dal 1949 al 1958, indossando la maglia rosa in una tappa del Giro d’Italia del 1952, la maglia tricolore di campione italiano nel 1956 e vivendo il periodo più romantico del ciclismo italiano. E’ stato poi direttore sportivo di campioni come Michele Dancelli, Gianni Motta e Eddy Merckx. Oggi ha ottantatré anni ma non li dimostra. La sua voce è ancora quella di un ragazzo e, mentre parla della sua passione, sorride. I ricordi e gli episodi che abbiamo rievocato, in un pomeriggio di primavera, non appartengono a un passato lontano e fumoso ma a un “ieri” vicinissimo e quasi palpabile.

Come è iniziata la sua carriera in bicicletta?

Per passione, naturalmente. In senso più specifico è stato Salvatore Crippa, già ciclista professionista, che era il fidanzato di mia cugina a propormi di correre. Eravamo nel periodo della guerra, tutto era più difficile: la mia prima bicicletta non aveva certo il telaio da corsa, era m
odificata, la prima gara l’ho fatta addirittura con i parafanghi. E’ stato nel settembre 1944, con il Pedale Monzese. Avevo quindici anni e sono arrivato in gruppo. Da lì è iniziato tutto: ho fatto quattro stagioni  da allievo e due da dilettante. Nel 1947 ho vinto undici corse e sono stato Campione Lombardo. Poi, nel 1949, sono passato professionista con la Legnano e sono stato con loro dieci anni. L’emozione più bella? Senza dubbio la maglia Tricolore, nel 1956. Era tutto diverso, allora. Quella maglia aveva molto più valore, aveva un significato particolare. E non era una prova unica, di un solo giorno bensì cinque: quattro gare in linea (Giro di Reggio Calabria, Giro del Veneto, la Milano – Vignola e il GP Industria e Commercio di Prato) e una cronometro di 120 chilometri. Il mio avversario, quell’anno era Anacleto Maule che poi arrivò secondo. Un’altra emozione è stata indossare la maglia rosa, durante la prima tappa al Giro d’Italia del 1952. L’arrivo, quel giorno, era allo Stadio Dall’Ara, a Bologna e ricordo che Magni prese il terzo gradino del podio. Sul primo c’ero io.

La maglia rosa è qualcosa di magico e particolare per i ciclisti italiani, come la maglia gialla per i francesi. Lei preferisce il Giro o il Tour?

Io il Tour de France non l’ho mai corso. Nel 1954 avevo fatto richiesta per poter partecipare e Binda mi aveva già detto di sì. Ma, per mia sfortuna, quell’anno, con i fatti del Bernina, la Federazione Ciclistica Italiana si rifiutò di mandare suoi corridori a disputare gare oltre confine. Perciò quell’anno, al Tour, non c’erano italiani e a me andò male. Comunque, se devo scegliere, preferisco il Giro. Il Tour, internazionalmente, è considerato superiore ma è questione di organizzazione. I francesi sono molto bravi in queste cose e politicamente abili. Ma il Giro, tecnicamente, è migliore.

Lei ha conosciuto Fausto Coppi. Quando l’ha visto per la prima volta?

La primissima volta fu a Copenaghen, per i Mondiali. Ero un ragazzo e mi avevano dato un pacchettino da consegnargli. Erano delle gomme speciali che dovevano essere affidate esclusivamente a lui, infatti mi ricordo che sul pacchetto c’era scritto “Fausto Coppi”. Gliele portai e lì fu la prima volta che lo vidi di persona. Passò qualche anno prima di trovarmi a tavola con lui. Era di fianco a me e io tremavo, ero emozionato. Lui era già avanti con la sua carriera e, a un certo punto, mi chiese: “Ma quanti anni hai, te?”. Io risposi: “Venti”. E lui si mise a ridere: “Quanta fatica da fare che hai davanti!

Secondo lei perché oggi è difficile, per l’Italia, emergere internazionalmente, rispetto ai tempi di Coppi?

E’ un problema di costi. Sono troppo alti per essere sostenuti in questo clima di crisi. Le squadre più grosse e con maggior giro di denaro si possono permettere, naturalmente, i corridori migliori. Ecco perché stanno emergendo le squadre di nazioni come Australia e America. Per quando riguarda i ciclisti, invece, bisognerà aspettare un cambio generazionale. Adesso come adesso Nibali è forse uno dei pochi che potrebbe fare la differenza in una grande corsa a tappe.

Cosa direbbe a Nibali, se fosse un suo direttore sportivo?

C’è poco da dire in certi casi. Alla Sanremo ha fatto molto bene ma gli mancava quel briciolo in più. Non c’è un consiglio in queste occasioni: dipende dalle gambe, se ce le hai vai, altrimenti no.

Quello che si chiedono tutti è: meglio che Nibali faccia il Giro o il Tour? Oppure tutti e due?

Da quello che posso capire Nibali vorrebbe fare solo il Tour. Ma Basso ha avuto troppe cadute ultimamente e forse sarà costretto a cambiare il suo programma. Perciò io credo che Vincenzo dovrebbe fare il Tour e andare anche al Giro come, diciamo, allenamento, portando Basso come gregario.

E dei nostri giovani ciclisti, cosa ne pensa? Chi vede meglio?

Ulissi mi piace molto. Ma per fare una valutazione reale, bisogna aspettare. Non è più come una volta. Adesso un grande corridore è difficile che emerga prima dei 24 – 25 anni perché la competizione è diventata più cattiva. Per intenderci: sarebbe impossibile, oggi, vedere un Fausto Coppi di ventun anni che vince il Giro d’Italia.

Gli ordini di squadra possono condizionare la carriera di un campione emergente?

Sicuramente oggi la gerarchia di squadra è molto più forte. Per esempio la Sky è, ovviamente, tutta a servizio di Cavendish e segue la legge dello sponsor che chiede i risultati. Tutto, insomma, è sempre ricondotto ai soldi. Se un corridore vuole tentare di distaccarsi un po’ da queste gerarchie, potrebbe provare con una squadra più piccola ma lo svantaggio è quello di non poter partecipare alle classiche e ai grandi giri.

E il rapporto con il suo direttore sportivo, Pavesi? Com’era?

Pavesi non mi ha mai detto: “Non fare così.” All’inizio mi aveva corretto la postura sulla bicicletta: pedalavo “troppo di punta”. Ma poi mi ha lasciato sempre libero.

Lei è stato per molti anni accanto ad Eddy Merckx, com’era il rapporto con lui?

Con tutti i miei corridori ho sempre avuto un rapporto di amicizia che è continuato anche dopo. Una cosa che mi ha fatto piacere è che il mio impegno come DS l’hanno capito pienamente, in seguito. Infatti durante l’ultimo anno da professionista, nel ’78, avevano dato a Eddy degli incarichi riguardanti la squadra come, per esempio, l’ingaggio dei corridori. Un giorno mi chiamò dicendomi: “Giorgio, ma tu mi devi spiegare come diavolo hai fatto a gestirci per tutti quegli anni!”. Questo mi ha fatto ridere e, allo stesso tempo, mi ha fatto contento perché aveva capito l’onere e la responsabilità che richiedeva quel lavoro e la passione con cui lo facevo. Con Eddy siamo sempre in contatto, è uno che si affeziona alle persone, lo faceva anche con i suoi corridori. Ricordo quando Van Schil era al tramonto della sua carriera e lui mi disse: “Non mandarlo via, rinnovagli il contratto” e io sottolineai che non potevo rinnovarglielo con lo stesso ingaggio perché i risultati non erano più quelli di prima. Eddy insistette, così proposi una sorta di patto: stesso ingaggio per tre mesi ma, in quel periodo, Van Schil non portò nessun risultato e si ritirò presto dalle corse. Questo per dire che Eddy era così, ci teneva ai suoi compagni di squadra.

Come l’ha conosciuto?

Eddy è arrivato alla Molteni nel 1970 e fui proprio io a contattarlo per proporgli di entrare in squadra. Mi aveva telefonato Molteni dicendomi: “C’è Merckx sulla piazza perchè la FAEMA si ritira: bisogna chiamarlo, prima che lo faccia qualcun altro”. Io ero alla Parigi – Lussemburgo e, dall’albergo, telefonai al numero che mi aveva dato Molteni. Mi rispose sua moglie Claudine: probabilmente aspettavano quella telefonata e mi disse di andarli a trovare per cena, visto che alloggiavano vicino. Fu lì che, assieme al suo procuratore, Eddy mi disse che cercava squadra ma voleva portare con sé quattordici corridori. Il posto, alla Molteni, c’era perché quell’anno se ne erano andati in molti, tra i quali anche Dancelli. C’era solo da affiliarsi alla Federazione Belga perché non potevamo stare con quella italiana: con l’acquisto di quei quattordici corridori belgi la squadra era quasi tutta straniera e non rientrava nei canoni della Federazione. La cosa curiosa era che la FAEMA non voleva dichiarare di volersi ritirare dalle corse spontaneamente ma di esserci costretta per la perdita del suo campione Merckx. E a Eddy non stava bene. Così lui fece una specie di contratto: sarebbe passato alla Molteni solamente se la FAEMA avesse smesso di essere una squadra, altrimenti avrebbe continuato con loro. Così, impossibilitati a fare altro, emisero un comunicato in cui si diceva che la squadra si sarebbe sciolta e Eddy iniziò la sua avventura con noi.

Vincere e veder vincere: due emozioni diverse. Qual è stato il momento più bello da direttore sportivo?

Dell’epoca Merckx una vittoria che mi ha appagato moltissimo è stata quella del record dell’ora. E’ un risultato molto diverso da quelli in pista o su strada, è particolare e, per capire la grandezza di un campione come Eddy, basti pensare al fatto che il record è stato raggiunto in un ritaglio di tempo, dopo il Giro di Lombardia e il Trofeo Baracchi. Anche con Michele Dancelli, tuttavia, abbiamo avuto la bella soddisfazione della Milano – Sanremo. Però era un corridore più difficile.

Non era più difficile gestire un Merckx piuttosto che un Dancelli?

No, affatto.  A Eddy davano fastidio gli elenchi, i programmi, gli schemi. Per esempio, appena entrato alla Molteni non voleva che le sue gare fossero programmate, desiderava scegliere lui quelle a cui partecipare. Allora io proposi l’obbligo di fare almeno una grande corsa all’anno (Giro o Tour) e poi di lasciarlo libero di decidere per il resto del calendario. Poi, alla fine, ha capito che il Giro lo preparava in modo egregio al Tour e, da allora, li ha sempre fatti assieme. Insomma, Eddy era un cavallo da lasciare libero, solo così riusciva a vincere. L’unica cosa che gli dicevo sempre era: “Non esagerare”. E poi ci potevi anche ragionare. Per esempio quando mi presentò la tabella di marcia che aveva programmato per il record dell’ora, io gli dissi che non andava bene, gli spiegai il perché, la riguardammo insieme e ne facemmo una nuova. Fu così che quel record durò per più di undici anni, grazie al ragionamento su quella tabella.

Oltre le tre grandi corse a tappe, quali sono, secondo lei, le corse più belle del calendario?

Sicuramente la Roubaix e la Milano – Sanremo. Quest’ultima è particolare perché non è difficile da correre ma è difficile da vincere. Eddy aveva un debole per la Sanremo, infatti l’ha vinta sette volte.

Un pronostico per la Roubaix e il Giro delle Fiandre 2012?

Tom Boonen. Da quello che ha fatto in questi giorni è il favorito numero uno. Ma non sempre queste corse premiano il migliore, a volte è questione di fortuna o di come si svolge la gara.

Posted by:Miriam

Sono nata in Brianza in una calda notte di luglio. Scrivo da quando avevo quattordici anni e nel 2012 ho cominciato questo viaggio che si chiama "E mi alzo sui pedali". Ho pubblicato "Voci di Cicala" nel 2013, "La menta e il fiume" nel 2015 e "Come un rock" nel 2019. Mi piacciono i papaveri, il profumo delle foglie di menta e la ninnananna della risacca del lago. A volte scrivo con gli occhi chiusi.

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