“Anche lei, come i suoi colleghi, avrà scritto che sono un corridore finito. Ebbene, sappia che questo Giro di Francia lo vinco io con questa gamba”
Cannes, Tour de France 1948: Gino Bartali disse queste parole, in un corridoio d’albergo, avvolto in un accappatoio, ad un frastornato Luigi Chierici.
Gino, secondo i giornalisti, era finito. Quel Tour che avrebbe dovuto riconfermare il suo talento dimostrato con la vittoria alla Grande Boucle di dieci anni prima, che portava nel cuore degli italiani usciti dalla Seconda Guerra Mondiale tanta speranza, era perduto. Aveva vinto a Trouville, nella prima tappa, il campione toscano, battendo in volata undici compagni di fuga.
Ma le tappe seguenti avevano spento l’entusiasmo tricolore perché i francesi Bobet e Gauthier sembravano avere l’argento vivo addosso e Robic, sul Tourmalet, affibbiò a Gino due minuti. Francia e Italia avevano già eletto i proprio paladini: Robic, secondo i cugini d’oltralpe, era il più grande scalatore di tutti i tempi e Bartali aveva ancora la fiducia dei suoi italiani ma era appesa ad un filo. Un filo che si logorò del tutto a Cannes, quando venne annunciato un ritardo dell’asso toscano di ben ventidue minuti. Fuori classifica. Oggi, nelle grandi corse a tappe, un corridore che ha tutti quei minuti non lo nominano neppure. A chi interessa?
Ma quello era Bartali. E i ventidue minuti pesavano sulla testa degli italiani come macigni: i giornalisti, tremendamente, come, a volte, sanno fare solo loro, già incidevano il fallimento di Gino su quel Tour. Non Chierici, però. Che decise di discostarsi dalla massa di giornali che davano a Robic quell’edizione del Giro di Francia e di scrivere le parole che il campionissimo gli disse in quel corridoio d’albergo.
E non sbagliò. Perché i grandi, con il fango, riescono a modellare le vittorie.
Infatti, durante la tappa dell’ Izoard, Bartali scolpì con le sue ruote, con il suo coraggio, nella bufera di una salita torturata dalla pioggia, una delle più belle e leggendarie pagine del ciclismo italiano e del mondo. Robic era in fuga ma Gino aveva detto che avrebbe vinto quel Tour, che l’avrebbe portato a casa con le sue gambe e scattò per andarlo a riprendere. Saliva in progressione, staccava tutti. E quando vide Robic che, stremato, tentava di abbattere la fatica, alzandosi sui pedali, pensò bene di farlo spremere fino all’ultimo, fino alla cima. Rallentò e lo seguì da lontano, come un leone con la sua preda. Quando gli passò davanti fu come una mazzata: a Robic, quel Bartali che ricompariva quando credeva di averlo liquidato, con la faccia coperta da una maschera di fango, doveva apparirgli come una specie di fantasma. Ma, oramai, era tardi per sfatare la visione: il campionissimo era solo e si arrampicava su per quel colle lunare, dal terreno roccioso che chiamano “Izoard”.
Dopo quella tappa ne vennero altre e, nonostante Bobet tenesse duro, Bartali non solo guadagnò la maglia gialla e vinse il Tour, ma si prese anche la classifica a punti, sette tappe, il G.P. della Montagna, miglior “discesista” e miglior “sprinter”. Proprio come aveva detto a Chierici, Gino si conquistò il Giro di Francia con le sue gambe. E con quei giornalisti che avevano decretato, prima del tempo, la sua sconfitta, non ci volle più parlare, per tutta la durata del Tour. “Non avete scritto che sono morto?” domandava. “Ebbene i morti non hanno niente da dire”.
Difficilmente, oggi, si vedono azioni così. Qualcuno direbbe “Eh ma Bartali si nasce”. E’ vero. Ma coraggiosi si diventa. Perché in queste occasioni serve il coraggio tanto quanto le gambe. E non è solo una prerogativa dei giovani. Penso a Stefano Garzelli che, l’anno scorso, al Giro d’Italia, ha sfiorato la vittoria con una romantica fuga da lontano e ha scollinato da solo sul passo Giau.
Il coraggio non ha età.
“L’è tutto sbaijato, l’è tutto da rifare!”…
Grande Bartali!