La colza si mangia il guard rail mettendo larghe chiazze gialle a bordo strada, come se la natura non riuscisse più a stare nei confini che noi stolti abbiamo segnato per lei. Sul far dell’estate queste colline cambiano in maniera sconcertante, come se la vita si infondesse improvvisamente su un corpo esangue.
Mentre guido verso il Carpegna in una giornata di sole, penso a quando mio fratello mi ha raccontato di uno che ha dovuto spegnere una persona avvolta dalle fiamme, probabilmente un’esperienza che nessuno di noi vorrebbe mai provare né in questa esistenza, né in altre centomila.
È sopravvissuto? La prima domanda che fai, dopo lo shock. “Sto bene” diceva. Ma se ne è andato tre giorni dopo, il fuoco aveva intaccato gli organi interni prima ancora che lui potesse rendersene conto. Un morto che cammina.
Sulle montagne ci si aspetta il silenzio. Sul Carpegna – che sia gennaio o agosto – c’è un costante vento che soffia tra i pini, come una musica, un canto, qualcuno che sussurra cose indecifrabili. Si sente solo il tuo respiro, c’è scritto su una curva. E sfido chiunque a non sentire l’intensità di quelle parole dipinte con la vernice, come fanno gli innamorati disperati quando scrivono “mi manchi” sui muri, sperando che le cose cambino, che dall’altra parte qualcuno ascolti, che dall’altra parte qualcuno ritorni.
Ma, come tutti i disperati, noi possiamo sentire esattamente che forma ha il silenzio. L’agonia della salita somiglia a quella che ti divora dentro senza che te ne accorgi. Cammini, parli, corri, sorridi perfino ma dentro sei solo un involucro di cenere. E la montagna lo sa, sa tutte queste cose, che la vita non può interrompersi ma tu sì.

“Sono piccoli, non sono pronti a tutto questo” dice qualcuno sulla strada. “Li ammazzi a fargli fare questa salita due volte”
Ma il ciclismo non ha pietà dei suoi figli, non è neanche una faccenda che si affronta per gradi. È adesso che bisogna sbatterci la faccia, sapere che la soglia del dolore può essere superata, gestita, amata, capita. Quale posto può essere più adatto di questo? Qui dove il respiro costante di Marco si è fatto vento tra i pini, dove ogni curva bastava per misurare sé stesso. Una meditazione lontano quaranta chilometri da casa, lontano dal mare, dal mondo abitato, da tutto. Solo. Come sei sempre, come inizi e come finisci.
Solo.

Mentre le colline sono lontane e la pianura romagnola si stende a perdita d’occhio, c’è il sole che tramonta come un incendio laggiù. Un bagliore rosso intenso sull’orizzonte già scuro.
Non si sa mai quando il fuoco distrugge o purifica.
Kenaz, la runa del fuoco, simboleggia la purificazione. Quando esce capovolta significa un’affievolimento dell’energia e della luce mentre diritta rappresenta l’illuminazione, la guarigione, la fine delle difficoltà, il bene che sconfigge il male.