Dal finestrino scorrono le case quiete, i cavalli che pascolano nei campi mentre sopra di loro le nuvole nere e bianche compongono il solito quadro, il cielo drammatico del Belgio, cartolina vivente di aria e acqua come di sangue. A questo punto – una volta varcato il confine – di solito ho quella deliziosa sensazione di sentirmi a casa.
Ma niente. Non sento assolutamente niente, encefalogramma piatto. Quindi è cosi che si sentono quelli ai quali non gliene frega un cazzo, che basta una notte per dimenticare tutto, che si divertono solo perché son giovani, che un gioco vale l’altro e che niente è vero per davvero. Beh, in fondo sentirsi così fa schifo come sentire tutto. Chissà cos’è che ti fa sentire più vivo tra un ceffone in piena faccia o un’esistenza senza scosse.
Improvvisamente si apre un arcobaleno. Come puoi non dire wow adesso? Ci sono lampi che restano ancora integri, che ti svegliano d’improvviso, una visione, tipo il bagliore di una conversione, San Paolo caduto da cavallo, cose così, che non puoi proprio ignorare.
Non faccio in tempo a fotografarlo, i sette colori scompaiono così come sono arrivati.
A Bruges la luce è il tocco dei fiamminghi sulle tele, da uscire a berla subito prima che la pioggia la lavi via. Infatti il giorno dopo il Nord si presenta con tutti gli interessi, il cielo basso e grigio, il vento che vien quasi dal mare. Le case sono un’incanto ma quando le fotografi cambiano, sembrano quasi tristi, affacciate sull’umidità dei canali. Instagram è una bugia, come quando ti fanno credere qualcosa solo per farsi piacere, tutto alla finestra per nascondere il vuoto nella stanza. Qui ai vetri ci mettono tutto: fiori finti, scimmie, busti, gattini di ceramica, piante. Fuori neanche il più pallido specchio di quello che c’è dentro.



Di contro, i belgi pedalano imperterriti sotto l’uragano, è così che hanno cresciuto i loro figli, facendoli giocare in giardino anche durante le giornate di pioggia, facendogli sentire che niente poteva essere più forte dell’agonismo, del dare tutto in qualsiasi condizione possibile. Loro sono lì, in calzoncini corti, senza ombrello con i capelli fradici appiccicati alla faccia che ridono come se tutto scivolasse addosso: l’acqua, la vita.
Su un muro c’è scritto “Ceci n’est pas une pipe” con il led. Il solito messaggio dall’aldilà in mezzo al caos.
Non dobbiamo credere a tutto quello vediamo.
Guardare con gli occhi, sentire con il cuore.
Ceci n’est pas une pipe è uno dei quadri più famosi del pittore surrealista René Magritte che la dipinse per la prima volta nel 1926. Così come le nature morte non si possono addentare, anche la pipa di Magritte non si può fumare e questa impossibilità non le rende ciò che realmente sono. Tra i tanti messaggi dell’opera c’è questo che è il più importante: attenzione, la rappresentazione non significa realtà, l’immagine dell’oggetto non è l’oggetto stesso.