Me la prendo con calma oggi, dico.
Esco di casa, ho un picco di nervoso. Un cavalcavia chiuso da ventiquattro ore, la deviazione, la gente che si accalca a qualsiasi uscita, la Brianza il sabato mattina, cento mercati rionali con le persone che si portano a casa il maledetto pollo con le patatine fritte male. Prendo un panino e lo mangio mentre guardo la fila al Mc Drive e commento mentalmente le macchine. Metto la musica, dance o classica, le parole sono belle ma adesso vorrei solo grandi gesti. A volte immagino finali cinematografici che non accadono mai.

Il lago è pieno di riflessi e fa caldo quasi come a luglio, di nuovo un autunno anomalo, come qualche tempo fa. Un amico mi fa notare che, dalle prime volte, di anni ne sono passati dieci. Dieci o poco meno ciclocross totalmente diversi da quello di oggi, solitamente pieni zeppi di fango, sotto la pioggia e con quell’umido infame che ti si infila nelle ossa. Domeniche, solitamente. In cui bisognava onorare le feste, mangiare il panino con la salamella perchè sembrava quasi di far torto a una tradizione. In genere mi piacciono le tradizioni – anche se non ne ho avute granché nella mia vita – mi sembrano le uniche cose per cui il passare del tempo valga la pena.





Quello di Brugherio è lo stadio naturale che più si avvicina ai gloriosi palcoscenici del Nord, ma gli italiani non hanno la cultura di questa disciplina e molto probabilmente non ce l’avranno mai. Le cose sarebbero diverse se solo riuscissero a vedere la cruda, struggente sinfonia della polvere che si alza come una nuvola Cherokee contro il sole che è inclinato come in una primavera su in Belgio. Parliamo della Roubaix anche in un giorno d’autunno, ancora quella polvere è nei nostri occhi, di nuovo è la ninna nanna che un po’ ci bastona e un po’ ci culla. Il vento del Carrefour è ovunque, se chiudiamo gli occhi è persino dentro di noi.

Mentre torno alla macchina mi sembra di sentire odore di frittelle venire da chissà dove. L’ultima volta che ne ho mangiata una facevano ancora il ciclocross all’Idroscalo e c’era ancora il Castelli che mi aveva fatto una delle solite foto con la faccia da scema che lo divertivano da matti. L’ho messa in un album e mi è rimasta quella voglia di frittella che alla fine non soddisfo mai perché le friggono tutte nell’olio della Seconda Guerra Mondiale.
Sulla strada dello stadio mi sembrava che ci fosse un Lunapark ma forse me lo sono soltanto sognato. Ogni tanto penso a come sarebbe bella una sera a mangiare lo zucchero filato sui cavalli bianchi, a vincere pupazzi giganti al tirassegno, convincendoci finalmente che a volte le favole possono anche non avere niente da invidiare alla realtà.
Diciamocelo, i finali immaginari sono sempre stata la mia specialità.