Stretti passaggi si delineano tra il mais ancora basso, attraversano i campi in modo disordinato per arrivare a quello che tutti chiamano il Carrefour de L’Arbre. Parte della leggenda della Paris–Roubaix – nonché l’ultimo vero trampolino di lancio verso il velodromo – questa non è altro che una strada di pavé che taglia i campi che si distendono a perdita d’occhio, costellati qua e là da grandi macchie di gialli fiori di colza. Una visione che sarebbe sicuramente piaciuta a Vincent Van Gogh per trasformarla in pennellate vive e pastose sulla tela. Mi aspettavo di trovare una grande festa con frites e birra ma qua non c’è un chiosco neanche a pagarlo. Il vento porta i fumi delle griglie che la gente sta fomentando a petto nudo sotto il sole. La mattina di Pasqua si è trasferita qui, con i bambini che giocano a pallone, i ragazzi che spremono salse nei panini e cercano coni d’ombra inesistenti dove custodire l’alcol.

A Gruson ci sono dei belgi che ho conosciuto su un gruppo di pronostici su Whatsapp. Ci offrono degli strani arrosticini mentre affettano quattro grandi cipolle che fanno rosolare in una padella che crepita sul fornelletto a gas. Nel ciclismo funziona così, dividi il pane con gli estranei come se fossero tuoi amici, parli con loro del tempo, di come è andato il viaggio, di chi vincerà la corsa, in pratica come se li conoscessi da sempre. Una cosa normale. E la normalità è un lusso di questi tempi.

Le ore passano, la gente fa i trenini, i ragazzi dello swatt club mi offrono un’Heineken davanti al loro schermo che trasmette la corsa. Loro sono brasati dal sole che non vuole allungare le ombre del pomeriggio, mi dicono che torneranno in Italia stanotte. Immagino abbiano una scorta di Red Bull da qualche parte, il resto lo fa l’adrenalina che ti resta in circolo anche molte ore dopo. Probabilmente questo è uno di quei luoghi in cui non esiste niente di tutto ciò a cui siamo abituati: lo stress, la stanchezza, il tempo. Questa è una bolla in cui il vento soffia polvere dorata. E mento a me stessa quando dico che è colpa sua se mi scendono le lacrime appena prima del passaggio, quando il luogo e il momento formano la sacralità perfetta. Così penso a Gesù Cristo che sputa per terra e forma l’impasto miracoloso da mettere sugli occhi del cieco. Non so esattamente perché ma immagino che quei granelli di polvere fossero come questi, senza pioggia da giorni, simili a milioni di altri, eppure spettatori – anzi attori – di un prodigio.

I primi passano in pochi istanti, lampi a velocità folle. Poi la polvere si dirada, la chiara luce delle cinque inoltrate fa luccicare le piccole foglie del mais accarezzate dal vento. Ora possiamo vedere il mondo per come è veramente, la vita per come si dovrebbe vivere. La gente se ne va, io vorrei restare per sempre. C’è ancora qualcosa che devo dire a questo posto e non mi basterebbero venti Paris-Roubaix.
Quando ami, non ne hai mai abbastanza.

La sera, quando vedo la giostra dei cavalli in centro a Kortrijk, mi sembra di tornare indietro nel tempo. Per fortuna ci sono cose che rimangono uguali a sé stesse e anche io, nonostante tutto, continuo a desiderare un’esistenza semplice, fatta di piccole cose tipo una passeggiata fino al ponte nelle ultime luci del giorno, un pomeriggio a guardare la pioggia davanti ad una fetta di torta, una gita in barca sul fiume, un brunch la domenica mattina.
Mentre torniamo alla macchina, c’è una fila di gente che va verso il lunapark, un tizio ha una maglietta con scritto: “It’s a matter of time”. Mi colpisce all’improvviso, come un messaggio improvviso dall’altra dimensione. Mentre il fiume scorre dal finestrino vedo ancora il booster che sale e scende con i suoi led nella notte. Posso sentire fin qui il vuoto allo stomaco, il nulla sotto i piedi dopo l’eccitazione. Mi chiedo cosa si può mai fare una volta aperti gli occhi sulla verità. Forse è davvero solo una questione di tempo.
La guarigione del cieco nato è uno dei miracoli attribuiti a Gesù Cristo, contenuto nel Vangelo secondo Giovanni. Vedendo sulla via un uomo al quale era stata preclusa la vista dalla nascita, Gesù disse ai discepoli che la sua cecità era una condizione necessaria affinché si potesse manifestare l’opera di Dio sulla Terra. Poi sputò per terra, creò del fango con la saliva e lo spalmò sugli occhi del cieco, dicendogli di andare a lavarsi nella piscina di Siloe. Al suo ritorno, l’uomo aveva recuperato la vista.