Grandi anfore di coccio con le agavi guardano verso il lungomare dal muro di mattoni di una villa. In una delle vie secondarie che formano quei quadrilateri stretti e con le case basse e tranquille della Versilia, c’è un motocarro parcheggiato. Un quadro degno di quella che gli stranieri chiamano continuamente la “Bella Italia”. Basta girarsi un secondo per accorgersi che la bellezza è la sola ed ultima cosa alla quale si può aggrappare questa penisola derelitta. Un tipo sta insultando l’addetto alla sicurezza perché vuole tagliare il percorso di gara con il suo motorino. Sono duecento metri, dice. Probabilmente non sa che bastano meno di duecento metri per ammazzare qualcuno. Un piccolo sassolino può spaccare un vetro se lanciato a trecento all’ora, una sola parola può ferire per una vita intera. Ma la gente non sa che ogni cosa è potenzialmente un’arma, anche quando non la si vuole usare come tale.

Il tipo incazzato alla fine se ne va dall’altra parte della strada con le sue gambe e la corsa prosegue indisturbata. Forte dei Marmi e poi ritorno: una cronometro breve, secca, piatta in cui si deve dare tutto in poco spazio. Veloce per non pensare, veloce per non sentire tutto questo vuoto attorno e la Versilia trafitta dai raggi del sole invernale che oggi appare ancora più sola, con la partenza e l’arrivo distanti come non lo erano stati mai. I nomi degli stabilimenti balneari deserti si stagliano come parole affidate alla luce bassa che precede il tramonto e allunga le loro ombre sui lastroni bianchi. Stella. Gioia. Il pesce d’oro.

Mentre i corridori sfrecciano tra quei messaggi mandati nel nulla, penso al colonnello Aureliano Buendía che si chiude nel suo laboratorio a forgiare pesciolini d’oro. Li crea e li rifonde come Penelope con la sua tela mentre fuori Macondo non è più quel paradiso sulla terra dove non moriva nessuno e nessuno aveva più di trent’anni.
Il rumore sordo di uno skater che si allena per i trick sul lungomare mi catapulta improvvisamente fuori dal realismo magico. I famosi puntini del disegno oramai si sono scombinati senza più nessun senso, la gente va verso l’arrivo e io vado verso casa, mi perdo a guardare nei giardini delle case con le persiane bianche e le pale dei fichi d’india rivolte verso il sole. Ognuna di loro ha un nome, ognuna di loro aspetta la vacanza che verrà, i loro proprietari che terranno le luci accese fino a tardi nelle notti di agosto e l’aria sarà piena del profumo del bucato che asciuga in un attimo nei pomeriggi estivi. Loro sanno che qualcuno tornerà, lo sanno per certo. Invece noi certe cose siamo destinati ad aspettarle per cent’anni. Nel frattempo cerchiamo di distrarci con tutto il resto, facendo e disfacendo i nostri pesciolini d’oro per superare il distacco e la solitudine che sentiamo dentro al mondo reale.

La mattina dopo, quando mi sveglio, mi ricordo di aver sognato un cane bianco e nero che mi correva incontro in un bosco. Di nuovo il mio animale guida mi rasserena. Quello che succede è relativo, la luce è qualcosa che resta per sempre. In fondo tutti abbiamo bisogno di qualcuno che ci lecchi quando siamo senza speranza, che ci faccia sentire al sicuro. Tutti vorremmo qualcuno che non fugga senza aver prima lottato.
Il ciclismo lo dice, quello a cui tieni davvero è poco più in là dei tuoi limiti.
Il colonnello Aureliano Buendía è uno dei personaggi del capolavoro di Gabriel García Màrquez “Cent’anni di solitudine”. Fin da piccolo mostra uno sguardo lucido sulle cose e poteri di chiaroveggenza. Nella sua vita promuove trentadue insurrezioni armate, sopravvive ad un tentato omicidio e a settantatré imboscate, perdendo l’unico vero amore della sua vita a soli pochi giorni dal matrimonio. Alla fine della sua esistenza, si barrica in casa a lavorare ossessivamente ai suoi pesciolini d'oro. Non ne uscirà mai più se non una mattina per morire solo, accanto ad un castagno, dopo aver visto passare un circo senza allegria.