Dall’aereo mi sembra di vedere questi boschi e le case di mattoni rossi per la prima volta, nella gloria della luce mattutina. Dalla macchina invece mi sembra di essere sempre stata qui, anche quando ero altrove, anche quando non ci pensavo neanche lontanamente. La verità è che dall’ultima volta che sono stata in Belgio sono passati due anni, apparentemente non è cambiato nulla, le grandi pale eoliche che mulinano il vento sono ancora lì a vegliare queste vaste campagne sacre, i cavalli pascolano ancora tranquilli nei loro recinti bianchi. Ma tutto è cambiato.
L’aria fuori ha il solito l’odore delle frites, dentro delle birre, la gente ti guarda strano solo perché ha bevuto non per altro. Qui si parla solo di ciclismo, grazie al cielo, non c’è nient’altro che ha bisogno di essere discusso a parte il fatto che il volume dei due schermi che trasmettono la corsa è troppo basso. Il percorso è nervoso, i ragazzi scattano a ripetizione, va via un gruppetto, altri inseguono. Correre qui è sempre più facile a dirsi che a farsi, i belgi li chiamano “montagne” ma sono solo la cosa più bastarda che potessero inventare per rendere il ciclismo una struggente lotta tra classi. Il circuito fiammingo, una specie di lavatrice dove tutti vogliono stare davanti e se per dieci metri molli, allora puoi già pensare a quando starai a bestemmiare ai massaggi, dicendo che potevi dare tutto e invece non hai avuto la forza di farlo.

Forse se dovessimo mai paragonare il ciclismo a qualcosa che non sia uno sport, si potrebbe dire che è una gigantesca enorme illusione dove stai sempre in bilico tra quando il mal di gambe ti conferma che sei reale e quando la birra ti lava via la fatica, cullandoti in un mondo che probabilmente esiste solo nei nostri sogni. Quando attacca Filippo Baroncini, lo speaker dice che è stato bravo a sentire che quello era esattamente il momento per partire, lo sta dicendo ora che mancano cinque chilometri e poi quattro e tre. Non lo prendono più. Quando arriva c’è un vuoto di tre minuti buoni dove nessuno può vederlo, circondato dalla fiumana di ragazzi che si buttano a terra, della gente che si affaccia alle transenne. Nell’occhio del ciclone abbraccia i compagni, gli sussurra all’orecchio tutte le cose che si possono dire a qualcuno che ha lavorato per te, perché questo giorno fosse perfetto nel modo più assoluto. Il sacrificio e la devozione non possono andare mai uno senza l’altro.

E’ troppo tardi quando ci accorgiamo che dobbiamo mangiare e tornare ad Anversa per fare un check-in. Ci infiliamo in un Burger King e mentre addento il panino con la solita fame cieca penso che forse dove la gente vede mulini a vento noi vediamo giganti. E che certe illusioni sono le cose più vere contro le quali possiamo combattere. Siamo solo a dodici mulini da noi stessi, adesso. Undici, forse.
Nei pressi del castello di Consuegra ci sono dodici mulini a vento che sembrano essere stati d’ispirazione a Miguel Cervantes per la sua più famosa opera “Don Chisciotte” dove il protagonista scambia i mulini per giganti e intraprende una lotta contro di essi. Per la maggior parte delle interpretazioni, i mulini-giganti rappresentano le illusioni.