Sto seduta al tavolino di una cioccolateria, affacciata su un vicolo con i gerani rossi sullo sfondo ed è la prima volta che respiro in quindici giorni. Trento ha la luce di Innsbruck e i colori dei pomeriggi ad Alkmaar, un misto di cose che ricordo alla perfezione. Non c’è più il cane dall’occhio di vetro ma i nostri animali guida sono ancora qui a vegliarci da qualche parte, in qualche angolo che noi sorpassiamo correndo. Non ci sono più i corvi che volano come aquiloni ma resta l’allure nera di quei giorni, le strane inconsapevoli premonizioni che poi si sono rivelate vere. Alcune cose se ne vanno, altre restano, non sappiamo se quelle importanti hanno ancora un certo potere per squarciare le bugie ma di sicuro il buio lascia solchi profondi che a volte non siamo capaci di vedere.
Il ciclismo ha questo potere suo di farsi odiare ed amare alla follia. Certi giorni pensi che è stata una disgrazia, altre una benedizione: d’altronde tra la salvezza e la rovina c’è una linea sottile come la scia di un aereo nel cielo prima della sera.
La corsa degli Under è finita da un pezzo oramai, il pomeriggio scende placido sul sabato del villaggio e la gente passeggia fuori dalla realtà, un lusso che ci si può permettere sempre meno adesso. Continuo a pensare alla medaglietta rotonda e dorata che porta Juan Ayuso al collo e che continuava a luccicare anche nell’ombra del secondo posto, lungo la corsia transennata verso il podio. Abbiamo tutti un santo a cui rivolgerci quando le cose vanno male, nel ciclismo poi i santi lo sanno che quando si fa fatica si può bestemmiare e pregare insieme, forse lo sanno che la spiritualità ha più a che fare con la fatica, le cose conquistate senza nessuno che ti tiri la volata o ti porti alla linea bianca senza sprecare energia. Questo sport non ha scuse, specialmente non ha nessuna pietà con chi tradisce sé stesso.
Scorro le foto della mattinata, guardo la luce negli occhi di chi sa di aver perso un Campionato Europeo ma non di certo un’occasione. Una luce che ho già visto, mi ricorda la sera in cui sapevo esattamente che una vittoria te la senti prima ancora di ottenerla. Che un attacco sai già dove sferrarlo.

La cameriera del bar mi porta l’ennesimo the freddo. Un quadrato di sole illumina il tavolino per metà e due signori pranzano alle quattro del pomeriggio con una rosa rossa sul tavolo. In giorni come questi vedo squarci della vita che continua, degli anni che ci aspettano qui o altrove, delle cose che continuano a fluire e forse ci porteranno in un posto migliore, con persone migliori. Ancora ci resterà il sapore di quello che abbiamo amato, forse tornerà a galla come il profumo dell’Olea Fragrans nel mese di settembre. Per un secondo sentiremo la nostra più grande malinconia rivoltarsi dentro come un fiume in piena. Soltanto per un secondo, la burrasca contro la quiete.
Ma la vita è così, prendere o lasciare.
Nell’antichità, le collane erano tra gli oggetti di maggior valore ed erano viste come un amuleto, un portafortuna, ma sopratutto pensate come simbolo di protezione, infatti spesso venivano donate per proteggere i propri cari dalle influenze nefaste.