Apro gli occhi e guardo il soffitto di travi antiche sotto il quale, in trecento anni, la gente ha vissuto e si è raccontata storie, si è innamorata, ha lavorato, ha sognato, si è disillusa. Fuori c’è il silenzio assoluto della campagna, gli animali della notte adesso dormono e solo un gallo lontano, a tratti, fa sentire la percezione del tempo che qui, probabilmente, è un concetto astratto. Come dovrebbe essere.
Mentre guardo il cane che corre come un pazzo verso i vigneti, mi sale la malinconia. Non voglio tornare. Solo perché tutti noi abbiamo diritto a riposare quando la testa lo chiede, a non pensare agli orologi, alla vita che scorre e a tutto quello che devi per forza fare. Dylan è sparito nei vigneti. La libertà è una cosa seria.
Mentre salgo alla Gallisterna, sento il mio meccanismo di difesa che ultimamente funziona benissimo. Distacco totale. Le colline sono un rovente film già visto, i fianchi brulli e grigi segnano l’orizzonte immobili mentre giugno imperversa con le sue distese di grano dorato e le cicale friniscono senza sosta nelle chiazze d’ombra dove c’è odore dell’erba medica, di asfalto cotto dal sole e di altri umori estivi. La gente si accampa sulle stoppie, apre le griglie, sonnecchia, beve, mentre il cielo è bianco per la calura e un rapace vola sopra le vallate che si aprono come burroni. Mi sento lontano anni luce, con il mio messaggio da codificare che ancora non ha nessun senso e forse non ce l’avrà mai se nessuno mi dice come fare.
Di sicuro il ciclismo non ha il libretto di istruzioni, le cose le impari da solo, quando stai male e quando stai bene, quando sei al limite, quando non ne hai più o quando voli. Sai di che cosa hai bisogno anche in giornate come queste, quando non riesci neanche a vedere l’ombra di te stesso. Di sicuro questo sport non ti insegna a difenderti. Tutto a cuore aperto e poi rimani fregato. Sfilano le colline di nuovo verso Imola, il rettilineo del Mondiale che nelle foto sembrava un viaggio infinito verso l’ignoto, in realtà, è solo una manciata di metri. La percezione delle cose cambia, la finzione maschera tutto, i filtri opacizzano la verità.

Il circuito è deserto tra un giro e l’altro, così anacronistico per qualsiasi cosa che non sia una monoposto, figuriamoci per le biciclette che sono scheletri senza motore. Eppure il segreto è non sentirsi sopraffatto o è finita. Dalla fatica, dal dolore. Ogni pilota lo sa, sta tutto nel superare il limite, non si può vincere nella comfort zone. Tra le mille frenate nere che solcano l’asfalto non c’è più quella di Ayrton ma il suo spirito è qui, tra gli alberi di quella curva, abbastanza lontano da non sentire il caldo della pista, abbastanza vicino da percepirne ancora gli odori.
Il percorso della gara devia ai box, il ponte sul fiume a destra e poi verso il centro. La flame rouge.
La vita continua a scorrere ma continuo a pensare che il messaggio dell’universo abbia bisogno di una spiegazione.
Il messaggio di Arecibo è un messaggio radio trasmesso nello spazio il 16 novembre 1974 verso l’Ammasso Globulare di Ercole, a 25.000 anni luce di distanza. Il messaggio è composto da 1679 cifre binarie e chiunque lo riceva dovrebbe ordinarlo in 73 righe e 23 colonne per decifrare le immagini, altrimenti ordinato in 23 righe e 73 colonne produrrebbe solo un disegno senza senso.