Sento il sapore del Gin-Tonic in gola ma la testa pensa ad un altro magico impasto, una bibita al limone e un pezzo di cioccolato bianco, piccole cose improvvise che hanno dato senso al tutto e adesso senso non ne hanno più. La musica è alta, i bambini giocano a prendere il codino su un trenino che continua ad andare in cerchio. Agosto al mare è una specie di suicidio, credo. La gente non va in vacanza, la gente vuole solo rincoglionirsi e la capisco. Il barista dice: “Vuoi anche un po’ di patatine?”
“Ok, grazie”
Chiudo gli occhi per un secondo, quell’orribile musica commerciale continua a perforarmi le orecchie. Penso al Poggio, la macchia mediterranea che si estende lungo i crinali e là in fondo la striscia azzurra del mare con i motoscafi che la solcano di tanto in tanto con stelle cadenti bianche.
Come fai a sentire fin quassù l’odore delle onde della spiaggia che si infrangono contro le rocce cotte dal sole? Impossibile. Eppure lo senti. Come fai a pensare che lungo trecento chilometri restino le dolcezze che sono state spezzate, le premure che sono state dimenticate, l’amore profondo senza pretese? La Primavera ad agosto è come la neve d’estate ma su certe cime esiste. Bianca, pura, intoccabile. Sta ancora aspettando noi.
Dall’alto il mare luccica d’argento. Dall’alto il mare è immenso, il golfo tenta di abbracciarlo senza riuscirci mai. Dall’alto vengono le sirene della corsa e io penso che sul Poggio, esattamente lì, dovrà pur attaccare qualcuno. E’ così è, come se gli Spiriti sapessero qualcosa che noi ignoriamo completamente, come se ancora quel lungo brivido lungo la schiena non fosse cessato. “Scattare” è la prima cosa che impari quando vai in bici, la cosa con più adrenalina di tutte, non viviamo forse per questo, nel bene o nel male? La gente impazzisce, aspetti questi due interminabili secondi da quasi cinque ore e poi senti che arriva dentro tutto d’improvviso.
Questa corsa non la vinci né con il cuore, né con le gambe, è un miracolo e punto. Devi solo ricordarti da dove viene la luce.
Mi fiondo giù per la discesa che porta al traguardo, accosto cinquecento metri dopo, un bambino sente tutto il mio repertorio di imprecazioni sul maledetto fine corsa che non passa mai. Guardo la diretta dal pc aperto che si sta per scaricare, le immagini in loop della finish line, la luce malinconica della Riviera con i gabbiani che passano interdetti sopra quella linea retta che è via Roma. Ancora di più, ancora più bella. La gente non lo sa che certe corse ti scavano il cuore fino a lasciarti solo il torsolo.
E’ tardi, dalla strada vengono le grida dei ragazzini che faranno ancora più tardi, i motorini sull’Aurelia che sfrecciano nella notte della Riviera. Mi chiedo se io mi sia mai divertita così, quando avevo quindici anni. No, infatti no.
Mi sveglio alle due perché sento una vibrazione del telefono, guardo lo schermo: nessun messaggio, nessuna notifica. Che cos’era? Ancora il confine tra la realtà e la verità è labile come il mare che diventa cielo quando tramonta il sole. Dalla finestra entra la luce bianca del led dell’albergo che invade la stanza buia, in verde c’è scritto: “Hotel Fortuna”