Papaveri. Ne fotografo uno per capire se nel casino, la macchina fotografica mi si è messa sul focus manuale. Sì, uso sempre l’automatico perché non sono una vera fotografa. E sì, guardo sempre i papaveri pensando a quando ci giocavo come se fossero ballerine. Gonne rosso sangue nei prati alti della primavera scoppiata d’improvviso. Ma qui il vento stacca i petali come un vino rovesciato d’improvviso, lo leccheresti per non perderlo, lo raccoglieresti con la lingua. Qui il vento piega le chiome degli ulivi argentati su una strada deserta dove viuzze secche e quiete e forse anche dolci a starle a sentire, si perdono tra le piante che fischiano silenziose nell’anonimo maggio dell’entroterra.

Non mi piace niente. Un tipo sbuca dal nulla, mi dice qualcosa in dialetto che non capisco. Sorrido come una deficiente, non so neanche se è una domanda o un’affermazione. Dico solo che sì, manca ancora un po’ all’arrivo del gruppo. Nuvole bianche striano il cielo azzurro: la corsa è in ritardo di mezz’ora. Sempre così: tutto di fretta per arrivare e poi milioni di infiniti milioni di minuti che scorrono lenti prima del passaggio. Ma che cazzo di problemi ha il tempo? Dai fossi viene l’odore di orto, di erba seccata al sole, spianata dal vento come la felicità dovrebbe spianare le rughe, riportare il sereno. Il gruppo passa, i papaveri sono chiazze rosse nei campi lungo l’autostrada, sopra le nuvole sono grigie come quelle che promettono tempesta.

Il sole sparisce, sotto un cielo d’apocalisse si profila lo scheletro bianco di Tor Vergata mentre in macchina c’è L’Amour Tojours a tutto volume. Ho un brivido per un millisecondo. Suburra. Lo sparo della pistola di Lele contro la sua testa. Un lago di sangue. E gli amici che lo guardano increduli, spaccati dal dolore come non si può dire, impotenti come siamo sempre davanti alla vita che ti fotte quando pensavi che sì, ok, le cose possono andare anche bene alla fine. Un solo, immenso, sparo nel buio sotto la campana inerte di un’opera incompiuta. Nero, lucido, sangue dei papaveri a chiazze nei prati, dieci chilometri in cui succede di tutto: sfregare sull’asfalto e vincere sono distanti un soffio, così poco da renderti consapevole che l’estasi non dovremmo sottovalutarla mai. Un colpo di scena, in fondo siamo tutti alla ricerca di qualcosa che ci lasci senza parole, o senza fiato. Guardo il sangue colare mentre coriandoli rosa volano sopra le teste come profezie, il dolore prima lo esorcizzi e poi  ci devi fare i conti, tipo quando sei da solo, quando non hai vie d’uscita o quando credevi di averne. L’illusione è un peccato mortale.

Posted by:Miriam

Nata in Brianza, nella calda notte del 30 luglio 1991. Scrivo da quando avevo quattordici anni e nel 2012 ho cominciato questo viaggio che si chiama "E mi alzo sui pedali". Ho pubblicato "Voci di Cicala" nel 2013, "La menta e il fiume" nel 2015 e "Come un rock" nel 2019. Mi piacciono i papaveri, il profumo delle foglie di menta e la ninnananna della risacca del lago. A volte scrivo con gli occhi chiusi.

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