Le valli sono costellate qua e là dai fumi che salgono lenti e costanti. Non c’è niente da fare, gli abruzzesi ci nascono così: grigliare è uno stile di vita e io ho sentito lo spirito di questa terra selvaggia e impetuosa e folgorante appena varcato il confine. Cambia l’aria, cambia la gente, cambia tutto. Penso alla notte prima, mentre i mariti del paese stavano a guardare la partita alla televisione di un’osteria appena fuori dall’autostrada. “Qua, se viene il terremoto” dice uno in non so quale discorso. “Non si salva nessuno”.
Dieci anni da quella sera. Forse una come questa o come molte altre. Me lo dice un amico, erano le nove, lui stava a New York e i suoi genitori lo chiamarono per dirgli cosa stava succedendo qui. Quante parole possono stare in una cornetta per spiegare la tragedia di un solo istante? Non si salva nessuno.
Le nuvole grigie di una tempesta di mare incombono sulla valle che a tratti è illuminata dal sole come un miraggio, come un miracolo. I piccoli paesi sui fianchi delle montagne quiete sono tutti vegliati dalle gru, come condor, come immobili corvi magri e storpi nel vento. Impassibili come il dolore. Il ciclismo sa cosa vuol dire tenerselo dentro, alzarsi e far finta di niente, fare una salita e sentire le gambe spezzate a metà ma andare avanti, sentirsi piccolo, inutile, debole, ferito. E andare avanti. O ricominciare dal niente, fare la volata da fermo, scattare alla curva più dura.
La salita del GPM mi ricorda le strade immense come lande desolate che sconfinano in Francia per il Tour: solitarie, selvagge e bellissime e infinite come un pugnale diretto e dolcissimo. Romeo e Giulietta, che non sai mai se è un dramma o una storia d’amore. In alto ci sono quattro o cinque persone imbacuccate nei loro k-way, impassibili come guardiani: sopra di loro sventola una bandiera fiamminga. Il Leone delle Fiandre si staglia nell’apocalisse del cielo curvo, su queste cicatrici che nessuno dimentica. Ferite aperte dove filtra la luce di questo pomeriggio, come balsamo il sudore che scorre dopo una tappa strana, indecifrabile, spirituale.
L’Aquila è spezzata a metà da quella sera, le case sono di nuovo bianche ma vuote, le finestre chiuse, i portici deserti anche se i bambini fischiano e ridono e corrono. Non si ricordano niente ma sarà pur sempre una cosa con cui dovranno fare i conti se resteranno a vivere in questo paese bello e disgraziato. Nei vicoli lontani dalla piazza soffia un vento da Nord, impietoso come il terremoto che si è mangiato tutto senza avvisare, è arrivato e si è portato via con sé cose che nessuno voleva lasciare. Nessuna cicatrice profonda si vede.