Davide Van De Sfroos mi prende il polso, legge il tatuaggio, mi canta un pezzo di Hoka Hey. Como è San Siro per un attimo, anche se nessuno poga e nessuno balla, le foglie cadono a pelo dell’acqua come barche venute giù dal cielo. La benedizione dello sciamano. Il lago culla con la risacca la sua malinconia d’autunno, come sa fare solo lui; avvolge le cose nella sua aura dorata, nella mite foschia del pomeriggio.
Se mi dicessero che è passata una stagione, non ci crederei. Non ci credo più molto alle cose, in fondo il ciclismo ti insegna che prima apri gli occhi, meglio è. Questa corsa è un calcio nei denti con attorno il paradiso, proprio come suonerebbe la scena di un film in cui c’è un tipo che spacca tutto con l’Hallelujah di Jeff Buckley in sottofondo. Struggente, idilliaco, violento, infinito.
Niente, non vedo quasi niente della corsa. Forse mentre guardo il mare dorato dell’asfalto controluce del rettilineo d’arrivo dovrei pensare a fare bilanci, ma chi li sa fare? Io che alla fine sono brava a programmare solo i miei viaggi mentali: play, pausa, fine. Nibali si è staccato, Pinot è in testa. Quaranta secondi, ce la fa. E’ un francese che vince una corsa profondamente italiana. Ma in questo caso si può lasciar perdere l’eterna rivalità con gli adorati cugini, Thibaut la sognava da quando era piccolo, sognava questo giorno perché Il Lombardia è la corsa che avrebbe scelto per coronare una carriera e forse la sua sta per cominciare ora. Adesso che non ha più paura di buttarsi in discesa. Perché alla fine il segreto è tutto lì, il punto di questa corsa non è la salita ma l’ultima fottuta corsa fino al lungolago. Tutto lì il coraggio, alla fine. Tenere gli occhi ben aperti, sapere che ce la potresti fare. Non si stacca Thibaut da questo incanto, dalla gente che gli fa le domande in italiano, a lui l’italiano piace, non lo parla certo, ma ascoltarlo gli sembra una specie di poesia. Strano ma vero. E sinceramente non gliene frega un cazzo della Liegi, di quando gli chiedono se vorrà o potrà vincerla.
“Una Classica si vince solo se la si conosce.”
Penso alla Roubaix: per eccellenza la più inarrivabile, complessa, estraniante che esista. A tutti i settori che hanno le loro chiavi, come porte, come stanze, come parti di un corpo.
Lui forse l’ha ascoltata in profondità questa corsa, anche quando non aveva niente da dire, anche negli arrivi dove per lui c’era silenzio, quando gli altri erano i più forti.
Sì, ma poi chissene frega adesso della Liegi, dai.
Lungo la passeggiata degli innamorati c’è uno che legge sotto la luce gialla di un lampione, sembra di stare in un’altra epoca, il lago è nero e riverbera le luci delle rive con larghe e placide e infinite onde metalliche. Cinque ore come cinque minuti di canzone. Alla fine, è tutto molto prog. Lunghi spazi senza parole, persi negli assoli, ad ascoltare il synth pulito pulito che di solito è sommerso dagli altri. Invisibile.
Un viaggio mentale, lungo come l’autostrada di notte, a tornare da una corsa.
A tornare da una stagione.
… i settori, ognuno come una porta, ognuna con la sua chiave
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