Un agglomerato di case, vecchie sedie di legno umido che aspettano chissà chi e una vecchia insegna a dire che lì c’era un telefono. Cascine in vendita. Uno si chiede chi ci andrebbe ad abitare lì, sul fianco della collina, con il sole che forse arriva a tratti, lontano un po’ da tutto, con un ristorante chiuso, muri antichi che le piante infestanti si stanno rimangiando assieme al tempo, lentamente, insieme alle storie. Un gatto nero corre verso una stradina che sale nei boschi. Ne ho avuti anche io due così, gli volevo bene, sono spariti. La gente è inutilmente cattiva con le vite altrui.

Superga è là in fondo, imbevuta della luce di un pomeriggio autunnale con il sole bianco e invisibile, le nuvole sopra la basilica silenziosamente ferita nel fianco, la sua dolorosa spina incastrata lì per sempre. C’è il vento su questo versante, la voce degli spiriti dentro le foglie degli alberi, sopra la ghiaia che non fa rumore nemmeno se ci cammini sopra. Un aldilà in cui possono passare tutti, ancora vivi, per un secondo o per mezz’ora.
Chissà perché la salita è sempre un urlo muto, una bestemmia travestita da preghiera: poi va a finire che non ci capisci più niente. Chissà perché c’è sempre un santuario, una cappella, una Madonna, un santo o qualsiasi altra cosa spirituale in cima; come le bandiere tibetane, ognuno ci scrive il proprio dolore come può, per primo o per ultimo. Anche se Superga è diversa, ha l’orgoglio dolce e malinconico e integerrimo dei suoi figli che la guardano dalla città, ha questo strappo secco a destra che te la fa avere in faccia d’improvviso, una specie di apparizione quando sei trasfigurato dalla fatica. E’ lontana, lontanissima dal tempo – e pure dalle connessioni – e non so se Thibaut Pinot lo sa, mentre sale da solo, piegato sulla sua bici, lontanissimo anche lui dalle immagini angeliche degli scalatori, dalla loro grazia.
Solo la vittoria è bella, dice il suo tatuaggio che sembra fatto apposta per uno che apre le braccia. Quando trionfi, quando sei in croce.
Solo la vittoria è bella.
Dai – senza offesa – è una cazzata.
Ci sono mille altre cose per le quali vale la pena sputar fuori l’anima e forse non tutte possono essere spiegate. Specialmente in tre parole. Specialmente quando sei uno abituato più a pedalare che a parlare. Specialmente quando la salita te le ha zittite tutte.
Ce ne sono altre mille ma nessuno le celebra e quindi è come se non esistessero.

Comincia a piovere, le colline in lontananza diventano eteree fino a sparire come in un sortilegio con il potere di infondere una tristezza improvvisa, esattamente come quando non sai cosa stai facendo e dove stai andando. E perché. Forse siamo anche noi gatti neri su una strada senza direzione. Forse quando qualcuno ci chiamerà, lo fisseremo con i nostri occhi rotondi e gialli, gli faremo vedere quanti mondi stanno in un solo essere vivente quando cerca una casa o l’infinito.

Posted by:Miriam

Sono nata in Brianza in una calda notte di luglio. Scrivo da quando avevo quattordici anni e nel 2012 ho cominciato questo viaggio che si chiama "E mi alzo sui pedali". Ho pubblicato "Voci di Cicala" nel 2013, "La menta e il fiume" nel 2015 e "Come un rock" nel 2019. Mi piacciono i papaveri, il profumo delle foglie di menta e la ninnananna della risacca del lago. A volte scrivo con gli occhi chiusi.

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