C’è un mosaico con un grande sole giallo e arancio, le palme, una torre. E’ il muro di un giardino dal quale sbuca una buganvillea, mille a dire la verità. Contro le case residenziali tutte bianche, il vento caldo che fa frinire le palme in un pomeriggio che è ancora sopra i trenta gradi. Nessuna tristezza di agosto, l’estate ancora nel suo splendore, questo mi piace, a me che settembre spaventa come un anno nuovo.
Ahlaurin de la Torre è bellissima in cartolina e forse la gente pensa che quando segui le corse vedi un sacco di posti fighi ma non è del tutto vero perché la macchina della corsa ha bisogno di grandi spazi e nelle volate in periferia – come questa – l’attesa diventa infinita, come certi tempi di qui. La cena tardi, a tratti tardissimo, la colazione con il caffè con leche e figurati se trovi un ristretto. Mi sto convincendo che siamo noi a sbagliare tutto con i mille orari che dedichiamo a ogni cosa, a volte persino all’amore. Con i mille piani che facciamo con la vita e lei se ne sbatte il cazzo di quanto tempo stiamo a decidere davanti a un bivio, a cosa scegliamo e cosa pensiamo.
Quando sono via lo capisco meglio, che bisogna essere leggeri, buttare via i noiosi planning.
Il sole sparisce, il cielo è grigio di quando si accumula tutta l’afa dei giorni, Lukas Pöstlberger attacca, lo vedo dagli schermi dei commentatori radio che grondano di sudore perché l’aria condizionata funziona male e vedo lo sforzo, nel caldo mi sembra di sentirlo quasi. A tutta, a bocca aperta, dentro l’estate andalusa che si prepara a un temporale estivo; eppure si sa che i velocisti raramente permettono ad altri di rubargli la scena in questo tipo di traguardi.
Per una strana mia idea, decido di fare la linea d’arrivo, insolitamente in un posto perfetto con la mia solita piccola lezione di vita: la preparazione non fa per te. Sbucano da lontano come il calore che sale dall’asfalto nelle giornate torride, Elia Viviani con la maglia tricolore vince e la reflex non scatta, la sd è andata. Ci metto forse due minuti a cambiare tutto ma sono come dieci, i secondi giusti li ho persi e lo so. Elia è sparito chissà dove, adesso forse capisco cosa prova uno che ha mancato la volata, con una certa dose di deficienza in più di sicuro. Un raggio di sole sbuca tra le nuvole, comincia a piovere e tutti corrono a casa. Certo che in giorni come questi passi cento e passa chilometri in gruppo a chiederti se avrai le gambe per lo sprint, se ti chiuderanno o troverai il varco giusto, se prenderai una gomitata o sarai tu a darla. Maledetti cento chilometri a farsi seghe mentali e poi, alla fine, è come lanciare una moneta. Testa o croce. Va bene o va male.
No, a volte non basta sentire di aver dato tutto, è una magra consolazione, lo dicono a chi perde, lo dicono per fargli coraggio mentre quello vorrebbe solo tirare giù mezzo paradiso, invece neanche ha il respiro per dire di allungargli una lattina ghiacciata. Comincia a piovere ma sono già alla macchina, la gente corre a casa e l’autostrada è deserta, come i paesi attorno che sembrano disabitati, l’erba alta e secca che sente l’acquazzone estivo come una carezza dopo millenni. Non serve a niente, domani sarà ancora tutto come prima. Illusioni su illusioni.
Quando la Sierra Nevada appare all’orizzonte ha un sole rotondo come un’arancia ed è rosso sangue, incendia il cielo e disegna il confine della catena montuosa che fa da cornice a Granada, bellissima nella sua notte andalusa con la gente che guarda l’Alhambra dal Mirador de Sant Nicholas come se fossero le nove di sera ma è l’una passata.
Come se non si dovesse andare a dormire mai.