La verità è che non oso pensare a cosa potrebbe succedere in una giornata che comincia perdendo il mio braccialetto preferito, sparito chissà dove. Questo continuo a chiedermi mentre il termometro della macchina sale a trentasette gradi fuori e io sono quasi convinta che perderò l’aereo di stasera. D’inverno in Sierra Nevada la temperatura può avere dei cali vertiginosi ma ad agosto è un autentico inferno. Le montagne azzurrine si disegnano come in un deserto, sembrano origami di carta offuscate dalla calura e l’aria muove gli ulivi lungo certe strade bianche e allucinate dal sole che si vedono dall’autostrada e non capisci esattamente dove possano portare.
Ai piedi della salita c’è un campo da basket sbiancato dal sole, immerso nella litania furiosa delle cicale nelle prime ore del pomeriggio. In alto la montagna brulla e secca contro il cielo senza nuvole veglia la pianura dove luccicano i tetti delle case addormentate nel caldo africano. Prendo una tazzina di salmorejo ma tre cucchiai sono fin troppi, il grande sole andaluso ti ammazza oggi e la strada che sale ad Alfacar fa già pensare a come sia dura questa corsa. La salita con il caldo è una combo letale ma non c’è bisogno di dirlo.

Su questa curva mancano penso sei chilometri e mezzo, cose così. Una rampa che sale tra le case bianche e la gente nei rettangoli d’ombra, i bambini con i tavolini da campeggio e la limonata, la banda. Hanno i tamburi e le trombe, ballano e cantano.

Donde esta mi Cerveza
donde esta mi Cerveza

Forse non è questo il caso o forse sì ma la gente andalusa ha i suoi gitani, detentori dell’antica tradizione del flamenco nato dalla mescolanza dei popoli. Per centinaia di anni le storie sono state tramandate cantando e ballando, sulle strade, all’alba, di notte, per moltissime persone o per un crocchio di ubriachi che voleva solo fare festa. Fanno la ola, tutti quanti persino l’ufficiale della guardia civil, sono le cinque e mezza ma non penso più all’aereo, sale dall’asfalto il calore di una pista ma da lontano, sui balconi, i bambini si sporgono per vedere i ciclisti che salgono, che si alzano sui pedali. In tv di sicuro non si vede quanto è dura la pendenza, non si vede – quasi – mai.

I gitani suonano, il patto magico tra il ciclismo e la gente, come se fossero intorno al fuoco a raccontare i millenni e non si sa bene come mai questo sport sia diventato tutto ciò ma se si potesse ringraziare qualcuno forse lo faremmo offrendogli questo, lo spettacolo che viene tramandato. E tutte le volte che abbiamo trasformato il sacrificio in qualcosa di molto più alto che una semplice salita in cui arrivi primo o ultimo. Qualcosa di molto, molto più alto.

Alla fine continuo a canticchiare per conto mio mentre sono in fila per il gate, penso che gli altri sappiano esattamente dove stiano andando, verso cosa stiano tornando ma io no. Solo devo comprare uno zaino più grande, in questo non mi ci sta più niente.
Sull’aereo vorrei dormire ma non ci riesco, ho la testa vuota, c’è la luna bianca per un attimo fuori dal finestrino, a Milano un ragazzo esce dal terminal gridando: “E adesso vado a casa e mi faccio una pasta, cazzo! Altro che tapas”
E’ mezzanotte.
Bentornati a tutti gitani, bentornati.

Posted by:Miriam

Sono nata in Brianza in una calda notte di luglio. Scrivo da quando avevo quattordici anni e nel 2012 ho cominciato questo viaggio che si chiama "E mi alzo sui pedali". Ho pubblicato "Voci di Cicala" nel 2013, "La menta e il fiume" nel 2015 e "Come un rock" nel 2019. Mi piacciono i papaveri, il profumo delle foglie di menta e la ninnananna della risacca del lago. A volte scrivo con gli occhi chiusi.

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