L’opera lirica è quel posto dove un uomo viene pugnalato e, invece di morire, canta.
Leopold Fechtner
Aria
Mio nonno aveva gli occhi azzurri. Un po’ come questo squarcio di cielo azzurro improvviso fuori da una galleria, sopra la riga perfetta dell’orizzonte quando il mare è blu e sgombro dalle nuvole. A volte mi sembra che io debba incontrarli ancora, da qualche parte, in un giorno qualunque, uno tipo questo. Che ancora mi aspettino per guardarmi anche solo per un secondo, dirmi che c’è il sole e pure molto vento, darmi un savoiardo o una Golia.
A mio nonno piaceva la Liguria. E anche la Lirica.
L’ha detto Cavendish, stamattina, che la Milano-Sanremo è come un’opera, che parte da una città bellissima e arriva fino al mare. Così strano sentirlo dire in una giornata come questa, quando Milano non ha niente di bello, gli ombrelli non bastano per salvarsi dall’acquazzone e lui, Cav detto Cannonball nei tempi in cui ne vinceva dieci su dieci, ha una costola dolorante e una mano praticamente fuori uso per sempre. Milano non è bella stamattina ma questa è una specie di folle dichiarazione d’amore per una corsa che lui ha vinto esattamente nove anni fa e che ora sa di non poter vincere ma non importa, sa che forse la costola farà ancora più male ma ancora non importa. Vuole solo correrla. Il ciclismo sta a metà tra il masochismo e la dolcezza, o forse, meglio ancora, tra la sofferenza e la beatitudine. Quando si mischiano è finita.
Coro
Le nuvole sono grigie sopra le colline, verso l’entroterra ma il mare è ancora blu, solcato da vele bianche e un pescatore sopra lo spumeggiare delle onde. A metà tra il buio e la luce c’è via Roma così stretta, metà case nel sole, metà nell’ombra e l’arrivo là in fondo, saranno trecento metri ma sembra su un’altra galassia. Mi siedo sul bordo di un marciapiede sotto il gazebo a guardare la tv, quaranta chilometri e non c’è quasi nessuno, il sole ogni tanto vela lo schermo. E’ forse la prima volta dopo tanto tempo che mi fermo a guardare davvero, senza parlare. Non dura molto. Devo ancora una volta chiedere a uno di spostarsi, come se l’educazione fosse uno stronzo di optional. Vedo la corsa anche tra le gambe dei giornalisti, in fondo sono abituata così, persino gli arrivi li inquadro negli angoli che non servono a nessuno. Fino a che c’è una caduta in mezzo al gruppo e quelli dicono Cav, Cav facendo scorrere nervosamente il foglietto stropicciato della lista partenti. Il sole è andato via, il replay ora si vede chiaramente. Mark Cavendish sbatte contro uno spartitraffico in mezzo alla strada: un volo che sembra un tuffo ma sotto non c’è l’acqua, c’è l’asfalto. L’amore, il dolore. Così bella questa corsa, eppure così crudele, come l’esistenza in cui sei in un attimo fuori senza spiegazioni, un giorno sei dio e un giorno sei niente.
Finale
Vincenzo Nibali proverà a scattare sul Poggio, lo sanno tutti. E non ce la farà. Sarà una bella azione, come le sue solite azioni, ti farà urlare e sperare e dire ai vecchietti che hanno ragione, Vincenzo è sempre Vincenzo. Come se avesse sempre addosso il Tricolore, è una magia che non gli togli più.
Non ce la fa, lo pensano tutti, uno scalatore alla Sanremo sarebbe come un velocista sullo Zoncolan, forse.
Matematico lo scatto sul Poggio e poi la picchiata in discesa.
Lo riprendiamo.
Dieci secondi che in tre chilometri sarebbero manna dal cielo in altre situazioni ma ora i giochi sono altri, questo è un tratto maledetto, uno di quelli che ti riporta diritto nella realtà dopo l’illusione. Ma Vincenzo è bello quando scatta, quando è piegato così sulla bicicletta, scultura vivente contro il vento che viene dal mare, che alza onde rabbiose di schiuma nel pomeriggio.
Se arriva alla rotonda con quel distacco ce la fa.
Sono i liguri là dietro che quel percorso lo sanno a memoria, potrebbero dire tutto tenendo gli occhi chiusi. Lo sanno che adesso Vincenzo può farcela al suo solito modo, lui scalatore in mezzo a due velocisti per il solito motivo di averci creduto, di aver dato retta all’istinto, benedetto per sempre.
Non c’è niente che non possa succedere qui. E adesso che suona l’Inno e la gente lo canta per la prima volta dopo tanto tempo, ora che la bandiera nostra sventola nel sole vicino ai gabbiani, ai coriandoli colorati come i fiori della Primavera, sembra che sia una specie di sogno, come se tutto dovesse sparire nelle nuvole dorate delle biciclette che lavano i meccanici attorno ai pullman pronti per andarsene.
E adesso che abbiamo tre chilometri per capire cosa voglia dire scommettere su sé stessi davvero, qualunque cosa dicano, facciamo in modo di non perderli più.
Mai più.
Scrivi molto bene. Complimenti