Placcaggio.
Nel ciclismo significa schiacciarsi come una sardina contro la gente cercando possibili varchi tra mani braccia e pance. A volte è un’arte lo ammetto, una specie di calcolo per vincere a tetris. Dieci persone da scavalcare e bingo: dieci punti.

Di sicuro Tortona e il suo vento che spennellava via le nuvole strisciando il sereno non me l’aspettavo così. Guardando le vie dove rotolavano i tovaglioli scappati via dai tavolini degli aperitivi abbandonati non avrei scommesso su così tante persone. C’è Fausto Coppi in una foto che non ho mai visto, più bella di molte altre, la sua faccia magra e gli occhiali da sole in mano. Forse è l’unica cosa che mi colpisce davvero in questa città, forse sbaglio, ho perso l’abitudine a trovare il lato positivo. Forse non esiste un lato.
Non so, ho la sensazione che il ciclismo mi stia dicendo qualcosa che non capisco. Guardando le facce della gente fisse sul maxischermo, i giornalisti con il mento appoggiato ai microfoni, mi chiedo che rivoluzione mi stia chiedendo. In parte lo so, in parte no.

Gaviria è un mostro a scovare vie impossibili. Sguscia verso il traguardo in modi che nessuno si aspetta. Un tetris fin troppo facile. Dove ha imparato? Non dove, ma come, ecco il punto.
Li odio questi finali qui, dove i pullman sono lontani chilometri e corro di qua e di là per decidere dove stare, cosa portarmi a casa. Tutto, a caso, come al solito. C’è un signore con il cappello e il giubbino pesante che chiede autografi a quelli che passano, sembra un bambino ma avrà settant’anni.
Cerco la mia via impossibile tra la gente per entrare nell’area del podio, sto lì dieci minuti a dire permesso come un disco rotto e a spostare braccia, persone fisse come statue sotto il sole. Ho così poche foto in macchina, è una di quelle volte in cui mi sono messa nei posti sbagliati. Tipico. Ma c’è un secondo, un solo secondo in cui sento che la rincorsa all’istante è quello che tiene in piedi ogni cosa, anche se torni a casa con le mani mezze vuote.

Guardo le bandiere sventolare. Non riesco a star sulla corsa, a pensare alle tattiche, ai secondi, a quello che manca, alle montagne o alla crono. Forse è disattenzione, forse è stanchezza.
Dovremmo solo trovare il coraggio di vedere un varco dove gli altri vedono schiene, forse è questo.

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Posted by:Miriam

Nata in Brianza, nella calda notte del 30 luglio 1991. Scrivo da quando avevo quattordici anni e nel 2012 ho cominciato questo viaggio che si chiama "E mi alzo sui pedali". Ho pubblicato "Voci di Cicala" nel 2013, "La menta e il fiume" nel 2015 e "Come un rock" nel 2019. Mi piacciono i papaveri, il profumo delle foglie di menta e la ninnananna della risacca del lago. A volte scrivo con gli occhi chiusi.

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