“Portami a casa mia, sulle Ande
Oh Condor.”
C’è il respiro della montagna, la nebbia grigia sulle rocce grigie dove si aggrappa l’erba che ha il colore cupo di certi muschi che crescono sui tronchi degli alberi, nutrendosi dell’umidità. L’ultimo pezzo di una schiena lunga, di tornanti e di chilometri. C’è il silenzio lunare delle cime, di quando la terra si allunga verso il cielo.
Il Condor, ti chiamano. Perché dove i condor volano sei cresciuto e hai imparato che la bicicletta è solamente il prolungamento delle tue gambe. La salita è stata sempre il tuo pane quotidiano, allenamento inconsapevole di un ragazzino che doveva andare a scuola e tornare a casa. A casa che era lassù, diciotto chilometri di strada verticale che si arrampicava dove i condor volano.
Impassibile come un dio inca e amato alla follia. Nairo, per loro sei solo Nairo. Che quando ti vedono ti abbracciano, ti baciano, ti dicono cose su cose nella lingua con la quale hai imparato a dire mamma e papà. E tu sorridi, Nairo il Condor. Sorridi appena. Ma solo dopo il centounesimo abbraccio. Perché sei così, come la montagna. Inafferrabile e lontano. Ma senza cattiveria, quella no. E’ il tuo carattere forgiato dalla salita, dalle tue Ande che sono come te.
Ti rincorrono, Nairo il Condor. Ti rincorrono su tutte quelle strade che hai percorso fino ad ora. E forse era troppo tempo davvero che ti volevano vedere ancora così, ancora davanti. Impassibile, con le gambe magre tirate nello sforzo di uno scatto che non sembra toccarti. Sei così, quando la montagna ti parla ancora, parla al tuo cuore di indio abituato al silenzio, alle poche parole, ai sentimenti tenuti nascosti. Sei così quando ti pare di sentire ancora l’odore di quei pomeriggi in cui tornavi da scuola e nemmeno credevi di poter diventare Quintana, di correre in Europa, di diventare un campione. Chissà cosa sognavi, Nairo il Condor, mentre pedalavi verso casa e la fatica non la sentivi perché ci eri abituato. Forse quella nebbia grigia che nasconde l’arrivo di Lagos de Covadonga rievoca tutto. Così volare è più facile, è più facile alzarsi sui pedali e non sentire niente. E tu lo sai che quando la montagna ti parla di nuovo, gli altri restano indietro. E tu forse non lo sai quanto profondamente la tua terra ti ama, forse non lo sai fino in fondo. Non sai per quanto tempo i colombiani aspettano te, al pullman o sulle strade. Per vederti, con i bambini per mano e una maglietta con scritto il tuo nome in blu, a caratteri cubitali. Perché forse non senti di fare qualcosa di speciale: alla fine, vai in bici come sei sempre stato abituato.
Questo silenzio assomiglia ai tuoi. La strada è deserta adesso, nessuno riesce a seguirti quando ti alzi sui pedali così, quando sei più vicino al cielo che all’asfalto. Quando il tuo sangue di indio si mescola alla bicicletta e succede una specie di sortilegio.
El Condor ti chiamano, perché dove i condor volano hai imparato che la salita è dura solo se ci pensi, che decidi tu quanto è grande un sacrificio, lo misuri con il valore di quello che vuoi ottenere. Perché sei impassibile e leggero anche adesso, adesso che sei a mille metri e c’è lo specchio d’acqua che riflette il cielo bianco, senza umori. Ci sono gli ultimi metri prima della linea, gli ultimi metri per dire che Quintana ha attaccato davvero, questa volta. Senza errori, senza timori.
Vola Nairo, il Condor. Queste montagne ti hanno riportato a casa.
Articolo meraviglioso Miriam.