Festoni rosa sventolano nell’aria contro un cielo friulano più azzurro che mai. E’ incredibile come la gente accolga il Giro. Palmanova è una cittadina strana. Che la sua pianta è a forma di stella non lo capisci subito. Vedi le mura e poi tutto attorno la campagna che sa quasi di fieno. C’è quel sole caldo di fine maggio spazzato dal vento. C’è la gente che beve già gli spritz ghiacciati sotto i tendoni dei bar. Non sono neanche le undici ma va bene così. E’ festa. E la piazza sembra una gigantesca cuccagna.
Dalle porte della città si vedono le Dolomiti, laggiù in fondo, azzurrine e appena spruzzate di neve. I corridori sanno che cosa li aspetta nei prossimi giorni, che il Giro più duro è appena cominciato. Eppure questo sole mette tutti d’accordo. Fa sorridere tutti. La fatica è più sopportabile con qualcuno che ti vuole bene a fianco. E le strade del Giro sono una specie di ola infinita di gente che fa la staffetta per tifare, per urlare il tuo nome.
Palmanova è tranquilla e chiassosa allo stesso tempo. Il sole, l’azzurro e tutto questo rosa. E’ strano, sembra un inno. Un inno alla bellezza. Di quel tipo che non si può comprare.
Alessandro De Marchi conosce questi posti a memoria, sono la sua pace dei sensi. Che per un ciclista è tutto. Casa, significa talmente tante cose che non le puoi spiegare a parole. Andare in fuga non significa soltanto provare a prendersi la tappa. Vuol dire anche fare un regalo alla tua gente. E i friulani hanno capito. Urlavano il suo nome in centro a Cividale, all’ultimo passaggio su quel ponte altissimo sopra l’acqua verde smeraldo.
C’è ancora quel vento leggero che fa sventolare i festoni rosa dappertutto. C’è ancora quella sensazione che tutta questa bellezza voglia dirci qualcosa. Che voglia insegnarci a restare a guardare. Come ogni giorno ce lo insegna il ciclismo. E’ la strada, è il viaggio. A volte basta uno sguardo per capire l’anima di qualcuno. Succede così anche per i luoghi.
Tutto si scombina, classifica compresa. Alessandro viene ripreso. Nieve conquista il traguardo. Amador la maglia rosa. Sul traguardo restano i massaggiatori ad aspettare con le borse piene di lattine ghiacciate, di bottigliette opacizzate dalla condensa. Caldo, freddo. Vittoria, sconfitta. E’ tutto così, la solita altalena di contrasti. Cominciano le giornate lunghe. Quelle che i ragazzi arrivano a gruppetti. Chi prima, chi dopo. Tutti hanno subito la montagna. Qualcuno continua ad amarla, ad aspettarla. Qualcuno continua a non andarci d’accordo e forse non ci andrà mai.
C’è la bandiera friulana chiusa in un pugno. L’orgoglio. Gli odori e i colori della terra dove sei nato te li porterai dentro per sempre. Sono una parte di te. E li ritrovi ovunque, anche solo per un momento. Scaldano il cuore, è vero. Anche in una giornata come questa.
Dal finestrino scorre la campagna attorno all’autostrada. Ci sono ancora le Dolomiti, una cima imbiancata ancora più bianca nell’ultimo sole. Lo stesso che sfilaccia le nuvole. Il tramonto che rende dorato persino l’asfalto tutto uguale. Sembra il solito addio ma non lo è.
Ancora una volta il Giro ha capito di cosa avevo bisogno. Tutti, ma proprio tutti, mi chiedono come ho iniziato a seguire il ciclismo. E perché. Non sono domande a cui riesco a rispondere mai davvero. Ci sono cose che non hanno inizio e neanche una fine. Esistono e hanno radici più profonde rispetto a quelle che costringiamo nei nostri confini di tempo e di spazio.
Arrivederci amore, ciao.
Torno presto.
Presto.
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