Ci sono luoghi che sono come un abbraccio. Per me Lecco è uno di quelli. Sono innamorata di “quel ramo del lago di Como che volge a mezzogiorno” e ogni volta che vedo le acque tranquille che non si stancano mai di dondolare a riva la risacca, come una carezza perpetua, mi sento proprio così, tutta avvolta, tutta serena, come in un abbraccio.
Oggi, attorno alle montagne che Manzoni guardò, prima di scrivere i suoi Promessi, ci sono grandi nuvole. E piove, il lago ha il colore del cielo: bianco, senza anima. Piove così tanto che, anche alle sedici e trenta di pomeriggio, è necessario accendere le luci delle strade e delle automobili che si riflettono male sull’asfalto lucido. Piove così tanto che alla gente assiepata attorno alle transenne, incollata ai maxischermi, non bastano più gli ombrelli ma cercano di elemosinare un poco d’asciutto sotto un portico o una grondaia gocciolante. E mentre l’acqua entra, lentamente, ma inesorabile, nelle scarpe penso ai corridori che hanno affrontato il muro di Sormano, poco tempo prima: sotto la pioggia battente, tra ali di pubblico, imbacuccati nei loro impermeabili fradici, con il vapore delle nuvole attorno, l’asfalto imbevuto di tempesta. Rivedo un corridore che butta la bicicletta di qua e di là, che sembra chiedere pietà a quella pendenza che, con quel tempo, e un poco di immaginazione, è davvero infernale, da digrignare i denti per la fatica. Si sfoca un pochino, quell’immagine nella mia testa, e diventa in bianco e nero: la stessa fatica, lo stesso Lombardia da tregenda. Quella volta, sull’asfalto, a stringere i denti c’era Gibì Baronchelli, corridore con il faccino di bravo ragazzo che mi ha sempre ispirato poesia, che mi ha sempre fatto ripetere un titolo di un vecchio giornale: “Lombardia, Baronchelli e così sia”. E’ così il Lombardia. Da sempre. L’ultima classica di stagione che, sotto l’acqua, diventa una giostra pericolosa, che fa paura, per quelle montagne che brontolano prima dell’arrivo, per quel lago che impallidisce e trema.
E intanto piove ancora sul traguardo che aspetta di applaudire il suo vincitore. Mancano pochi chilometri, viene giù un fulmine, si sente un tuono e la gente non si scolla da lì, da quel posto che ha guadagnato vicino alla transenna grondante per vedere, per prima, il campione di oggi. Rodriguez sta facendo l’impresa, ha tentato l’allungo e vuole prendersi la vittoria a tutti costi. Vuole essere il primo spagnolo ad esultare qui, oggi, con un tempo che non ricorda affatto la sua terra. Gli altoparlanti gridano il suo nome: nessuno può dimenticarsi chi c’è davanti in quegli ultimi cinquecento metri. Nemmeno quella signora lassù, alla finestra che guarda la scena, forse più per curiosità che per passione.
Joaquim Rodriguez arriva sul traguardo a braccia alzate, lancia in aria una borraccia, come un gioco, come se tutto per lui fosse stato facile. Lo sappiamo che non è così, lo sappiamo che Joaquim ha dovuto sempre lasciare il suo trono a qualcun altro, che è dovuto andar via spesso dalle corse con le gambe rotte, il sorriso a metà. Non ci sono parole per dire quella cosa che arriva dopo la vittoria, dopo aver passato la linea bianca: i sorrisi, gli abbracci, le pacche sulle spalle, i fotografi, i giornalisti, i microfoni. Non ci sono parole per spiegarla se non stare lì in mezzo, sentire che la felicità può avere sostanza, può disegnarsi chiara sulla faccia stravolta dalla fatica di Purito, può disegnarsi lì, tra la gente che non sente più la pioggia e si accalca attorno a un uomo bagnato, infreddolito, e tende una mano, un braccio, per avere una parola dal vincitore.
Poi la folla si dirada. Piove ancora, qualcuno rimane attaccato alle transenne, con l’ombrello stretto tra le mani: aspettano gli altri. Ma, di pazienza, la gente non ne ha mai troppa e, quando arrivano gli ultimi, le transenne sono quasi vuote: griglie inutili sotto un acquazzone che non vuole cedere. Arrivano, gli ultimi, sotto la stessa pioggia che ha bagnato il vincitore. Passano sulla stessa linea che, poco prima, ha varcato Joaquim Rodriguez. Un ragazzo della Katusha arriva esausto, un uomo robusto gli va incontro, gli da una maglietta nuova, asciutta e gli dice, ridendo: “Ha vinto Purito”. E bastano queste parole per sorridere, anche sotto il diluvio, per una stretta di mano, un buffetto sulla guancia.
Lecco è bella anche così. Sotto il diluvio, con il suo Resegone avvolto dalle nubi, con il suo campanile che svetta nel cielo senza umori. Mentre la lascio alle spalle mi dico che non esistono solo luoghi ma anche momenti che sono come un abbraccio. Momenti come quello della vittoria di Joaquim oggi, che è stato come un abbraccio desiderato da tanto tempo. E che ha avuto il potere di arrivare fino all’ultimo arrivato, fino al suo compagno di squadra, giunto sul rettilineo del traguardo con le transenne vuote. Non importa se nessuno l’ha visto: un abbraccio lo si sente anche al buio.
Bellissimo articolo – ma è ormai quasi inutile denotarlo, vista la qualità sempre crescente degli scritti del blog!
Inoltre, onore e gloria agli organizzatori del “Lombardia”, che inserendo il mitico Muro di Sormano, in aggiunta a Valcava e Ghisallo, hanno forse creato il percorso più bello, affascinante e spettacolare (anche televisivamente) degli ultimi tempi, di certo al pari delle più celebri classiche del Nord.