E’ senza benzina. Ha dato tutto. Non ce la fa più. E’ a corto. Insomma: si è piantato. Ci sono gli scalatori, i velocisti, i cronoman. E ci sono i Piantati. Quelli che, in un tratto che si arrampica in salita o nella dolcezza di una pianura, si mettono a tirare il gruppo. A tirare, come si dice, “a tutta”, con la faccia bagnata di sudore, le gambe lucide, tese, come le migliori sculture del Rinascimento. Quelli che, per chilometri, danno l’anima perché il gioco del ciclismo continui la propria strada. Gli stessi che, a un certo punto, sentono che il carburante è finito: niente più benzina, niente più gambe.
E allora si fanno da parte, lasciano che qualcuno, dietro di loro, si accolli il lavoro. Lasciano scivolare via il gruppo, lo stanno a guardare, corridore per corridore, schiena per schiena. Pedalano, eppure sentono che l’asfalto gli sfugge via da sotto le ruote, come su un crudele tapis roulan che abbia impostato una velocità troppo alta da poter sostenere. E’ così che sembra si arrendano, facendo dire ai tifosi davanti alla televisione: “S’è piantà!”. Si è piantato.
Ma dove vanno quegli omini sfiniti che hanno già dato tutto? Dove li porta quel tapis roulan crudele, dopo averli gettati fuori dalla visione della telecamera? Alcuni hanno più privilegi degli altri. Per esempio, se ti chiami Mark Cavendish e, nella prova di Campionato del Mondo dove sei il campione in carica, diventi un piantato allora puoi sperare che ti dedichino qualche immagine in più. Ma se il tuo numero, il tuo nome, la tua faccia dice poco, allora quella, quella lì di te e della tua bici immobile, mentre il gruppo scorre, sarà la tua ultima inquadratura. L’ultima, prima di essere solo.
Sì perché i Piantati veri non si ritirano. Sono quelli che, al traguardo, ci arrivano. Magari fuori tempo massimo, magari senza più una goccia di sudore da versare, ultimi, con le gambe immobilizzate dalla fatica. Ma, sulla linea bianca, le ruote della bicicletta ce le mettono. Sono quelli che, in salita, arrancano prendendosi gli ultimi applausi che sono avanzati nella cesta di quelli dedicati ai campioni. Si bevono un “Bravo!” che sboccia tra il tifo, come un bicchiere d’acqua fresca in un giorno d’agosto. Contano i chilometri ad uno ad uno, sperando che scivolino via veloci, sotto la pedalata pesante. Hanno una faccia diversa: nella loro smorfia di fatica non si legge desiderio di vittoria, nelle pieghe della loro pelle si capisce che sì, sono lontani dal traguardo più degli altri ma la spugna non l’hanno gettata veramente. Arrivano così alla linea bianca. Con le mani incollate al manubrio, la schiena a pezzi, la borraccia vuota. Con nessun applauso o forse pochi, con la gente che smonta le transenne, quasi a dire: “E tu che ci fai qui? La festa è finita”.
Sono così, anime che non si adattano ad arrivare in mezzo al gruppo. Che sanno di non avere dentro il sangue da campione ma vogliono lo stesso essere lì, donare il cuore per un’ora, due e abbandonarsi poi al loro destino. Niente gruppo caldo per loro che, forse, sono un poco spiriti liberi, coraggiosi. Perché ci vuole coraggio a restare soli a sessanta o più chilometri dal traguardo. Da soli, senza cambi di sorta, sapendo che, dietro, nessuno gli potrà mai tendere la mano.
Mi ricorderò di tutto questo, ogni volta che vedrò un Piantato. E non importa se la telecamera non lo inquadrerà più: mi dirò che anche noi a volte siamo un po’ così. Partiamo a tutta, vorremmo spaccare il mondo e, un bel giorno, ci accorgiamo che, di benzina, non ne abbiamo più. E allora il mondo ci scivola via, ne vediamo chiaramente la schiena un poco ricurva. Ma non è quello il momento di salire su un’ ammiraglia per ritirarci: bisogna stringere i denti, continuare a pedalare anche con le gambe di legno. Perché un traguardo è sempre un traguardo, che si arrivi a braccia alzate o incollate al manubrio.