La gente aspetta sempre l’attaccante che scatta e se ne va? Allora aspetta proprio me, è quello che sono, è quello che so fare

Marco Pantani moriva il 14 febbraio 2004, in una stanza di un residence di Rimini. Nessuno lo potrà mai dimenticare, nessuno, anche chi, del ciclismo, non si è mai interessato, potrà mai negare di aver ascoltato o letto la notizia senza rimanerne sconcertato.

Mi piace iniziare questo viaggio virtuale così: voglio inaugurare il blog con uno scritto che parla di lui. Ma non voglio che la data di oggi porti ricordi tristi. Allora la mente torna a quel giorno di luglio del millenovecentonovantotto, un giorno che ha tenuto incollati alla televisione gli occhi lucidi degli italiani che seguivano quella tappa del Tour de France.

Piove, sul colle del Galibier, le cime delle alture vicine sono avvolte in una nebbiolina leggera. Piove e la strada è lucida, riflette le luci delle ammiraglie, le ruote e le sagome dei corridori. Forse c’è tensione perché tutti si aspettano un attacco di Marco Pantani: aveva già vinto a Plateau de Beille, tre giorni prima, puntava alla generale e, tutti lo sapevano, la salita era il suo “pane quotidiano”. Tutti attendono che il Pirata parta all’attacco e, forse, gli avversari si preparano, mentalmente, a chiudere la fuga. Ma quando Marco, che indossa la divisa della Mercatone Uno – Bianchi, e ha, in testa, la sua bandana, si alza sui pedali e abbandona il gruppo, nessuno si aggrappa alla sua ruota. Ullrich non risponde, guarda l’avversario che gli sfila di fianco, senza fatica, rimane indietro e, forse, tra le gocce della pioggia insistente, scorge Marco che è già lontano, quasi proiettato verso la vetta, quasi avesse messo le ali.

A cinquanta chilometri dal traguardo, è solo. Il numero ventuno è solo.

E Adriano de Zan che sta facendo la telecronaca della tappa, dice: “Quando questo ragazzo scatta, non c’è niente da fare.”

Ed è vero. Perché Pantani continua ad accumulare minuti, Ullrich soffre e sente, piano piano, la maglia gialla scivolargli via dalle spalle, come la pioggia che continua a scendere incessante e si mischia alle urla, con i festeggiamenti che aspettano Marco lungo la strada a tornanti, verso la vetta del colle. Arriva al traguardo solo, con otto minuti di vantaggio sull’avversario tedesco che termina la corsa stremato. Questa impresa gli permetterà di salire sul gradino più alto del podio, a Parigi e gli aprirà l’Olimpo dei grandi corridori che, nello stesso anno, sono riusciti a vincere Giro e Tour.

Marco, da otto anni, non c’è più. Ma, talvolta, quando qualcuno scatta in salita, si alza sui pedali, ci sembra quasi di vedere, sulla bicicletta, quel ragazzo romagnolo con il pizzetto. E forse immaginiamo una bandana gialla che viene gettata via. E non importa se poi ci accorgiamo che quel ragazzo sulla bicicletta non è il Pirata. Quella bandana portata via dal vento non scompare, rimane sempre nei nostri occhi. Quelli del cuore.

Posted by:Miriam

Nata in Brianza, nella calda notte del 30 luglio 1991. Scrivo da quando avevo quattordici anni e nel 2012 ho cominciato questo viaggio che si chiama "E mi alzo sui pedali". Ho pubblicato "Voci di Cicala" nel 2013, "La menta e il fiume" nel 2015 e "Come un rock" nel 2019. Mi piacciono i papaveri, il profumo delle foglie di menta e la ninnananna della risacca del lago. A volte scrivo con gli occhi chiusi.

6 risposte a "Colle del Galibier, 27 luglio 1998"

  1. Grazie Miriam, per avermi ricordato il mio mito. Domattina andrò in bici e, come sempre, alla prima salita mi ricorderò di quel campione che agile scalava la vetta, della montagna e del mio cuore….

  2. leggo solo ora (argh!) vidi quella tappa tutta in diretta TV, poi lassù a quei -6km dalla cima ci son stato tre volte, sempre sui pedali… e allora ho capito cosa significa avere la forza e la lucida follia di scattare in quel punto, immenso.

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