L’autostrada è rovente, la lingua di asfalto e i piloni di cemento alitano sulle lamiere il caldo anomalo di giugno come se fossimo sulla Costa Brava e io – senza un preciso motivo – penso a quelle cascine di una volta immerse nella macchia della campagna, con i muri spessi che trattengono il fresco della notte estiva. Sogno di uscire da una stanza, guardare i fiori dal corridoio in ombra, fare colazione sotto gli alberi senza mai – dico mai – guardare un orologio. Così, tutte le mattine per l’eternità.
Mi chiedo…se desideriamo così tanto un luogo stabile dove essere felici, allora perchè dobbiamo continuare a passare la vita a correre freneticamente da un posto all’altro?


Pinerolo me lo ricordo come un dritto rettiineo dal Giro 2019, tre settimane frenetiche in cui avrei voluto essere altrove per tutto il tempo. Ma oggi è diverso, anche la mia testa lo è. Adesso questo paese è un intrico di vie sabaude dove ancora sopravvivono le antiche insegne dei negozi sotto i portici solenni dei quali, di tanto in tanto, si aprono pertugi che portano a cortili nascosti. Gli ultimi trecento metri verso l’arrivo sono una rampa tritagambe con il pavé a lisca di pesce che ricorda vagamente quello del Geraardsbergen. Anche qui sopra c’è una chiesa, però le case alte ed addossate alla strada stretta mi fanno pensare alle tappe della Vuelta in Andalucia. Tutto si fonde nella mia testa: quello che ho vissuto e quello che sto vivendo, in una specie di rotolo scritto freneticamente che raccoglie tutte le sensazioni. Come se qualcuno ogni tanto si divertisse a scombinare i cassetti della testa e a buttare tutto fuori come fanno i carabinieri quando hanno un mandato di perquisizione.

Un lupo nero di bronzo veglia il passaggio su questo tratto di quieto inferno, i ragazzi sono piegati sulle bici, colpa del caldo, dei chilometri e di un arrivo spacca-cuore: duro, inaspettato, bellissimo, come sa essere a volte il ciclismo in purezza. Dopo la linea bianca si ammassano tutti insieme e la gente si incazza. Certo che lo sappiamo tutti: il rettilineo d’arrivo deve essere sempre libero ma vedere questo caos organizzato è una cosa che mi fa letteralmente respirare. Sono così abituata ai traguardi dove nessuno guarda in faccia a nessuno e tutti corrono verso i pullman che in questo preciso momento sento di divertirmi più qui che in nove giorni al Giro dei pro. Loro adesso si stringono la mano, vogliono restare fino alla fine.

Leo si ferma dai suoi genitori che gli hanno fatto una sorpresa, piange su un GT vinto e una maglia rosa tenuta fino alla fine, stretta con i denti, lui e la squadra, senza paura di nulla. I cliché dicono che quando hai vent’anni spaccheresti il mondo ma la verità è che qui nessuno regala niente. In questa corsa sai solo quello che non sei, il resto te lo mostra la strada, appena hai il coraggio di ricollegarti a te stesso.
Dietro il podio qualcuno chiede che ora è. Un ragazzo risponde: “It’s pizza time.”

Mentre torno a casa penso al mio animale guida e improvvisamente sul muro di una fabbrica sfila una sagoma nera di un cane – o un lupo – che ulula ed è come se l’aurora boreale si sprigionasse davanti ai miei occhi, nel cielo ancora oppresso dall’afa del giorno. Fosforescenze che mi fanno guardare alla mia via di fuga dal vuoto.
Non mi guardo indietro oggi, tutto è disegnato nella grande corsa sul ghiaccio per la salvezza e quando il viaggio sarà concluso, così sarà la nostra missione. Forse inseguiamo continuamente la meraviglia e l’adrenalina perché ci eccita più della felicità.
“Balto” è un film d’animazione del 1995, ispirato liberamente alla vera storia dell’omonimo cane da slitta che ha aiutato a salvare i bambini infetti dall’epidemia di difterite che colpì l’Alaska nel 1925. Nel film, la cagnolina Jenna ricrea un’aurora boreale con la luce di una lampada e pezzi di vetro per illuminargli la via del ritorno.