Tra i vicoli si mescola l’aria della laguna a quella della frittura, gli avventori del bar sport sono in pole position con i loro calici di vino che riflettono lo Spritz – o il Prosecco – e oggi sono un po’ più contenti perché ci sono i ciclisti che sfilano su un ponte e su un altro attraversando il mare chiuso in questa conca che di sicuro al tramonto, con i gabbiani a pelo dell’acqua è più simile ad un quadro che alla realtà.
Il Friuli è un posto difficile da descrivere, fuori da tutto e- come ogni luogo di confine – detentore di una speciale aura mistica che mescola le leggende dei vecchi con le superstizioni dei giovani. Sopra tutto, la religione del ciclismo che governa le terre che attraversa, che calamita la gente verso la strada, la strada che decide. Che guida. Che salva.


Fuori dalla laguna si aprono i campi a perdita d’occhio, con lunghe strisce di papaveri che si intervallano al grano ancora verde. Linee di sangue in una terra dove un tempo il sangue è stato versato a fiumi.
Il Santuario svetta nel cielo azzurro che domina la valle, nelle sue viscere c’e San Michele che schiaccia il diavolo, in una cripta che – appena si fa silenzio – sembra trovarsi nel nulla assoluto. Il mare di candele ai piedi della Madonna nera mi ricorda la cappella dorata di Maastricht. Una vita fa, una Miriam fa. Chiudo appena gli occhi, il mio cervello si sconnette per un secondo. Tocco il silenzio. Il ciclismo è più vicino al sacro di quanto si creda.
All’ultima curva, nessuno è escluso. per ogni ciclista che sale c’è una ola da stadio, un ragazzo avvolto nella bandiera friulana incita persino i poliziotti a suonare le sirene. Così mostrano il loro lato verace ma affettuoso, mentre un gruppetto di signori dietro di loro disapprova la birra e tutto il resto. Li disapprova persino quando dicono alla gente di non scendere, che la gara non è finita. No che non è finita.
Lo scontro delle generazioni è assurdo come sempre ma io in fondo ho fiducia in questi scalmanati che invadono le strade. Loro non lo sanno, forse sono ragazzi che hanno preso ferie dopo aver lavorato tre mesi senza fermarsi. Forse questo è il loro primo vero venerdì senza il capo che gli dice: “Hey, c’è un’ultima cosa da fare, puoi uscire più tardi?”
Così il mondo viene consegnato a pezzi in queste mani e a loro non resta che rimetterlo in sesto.
Adesso lasciateli urlare, lasciate che il patto tra loro e i corridori si rinsaldi di nuovo.

Il sole disegna larghi quadrati sul pavimento e illumina gli Spritz sul retro del bancone di una specie di bar dell’oratorio con i tavoli di graniglia e le colonne di legno. Non so ancora a che ora scenderemo da qui. Mentre bevo il quinto tè freddo della giornata penso alle storie di San Michele che i genitori raccontano ai bambini per dargli speranza, per allontanare le paure e dimostrare che alla fine – magari molto in fondo – il bene vince sempre.