La bambina mi dice: “Vuoi un po’ d’acqua?”
Dico sì. Mi riempie il bicchiere fino all’orlo, ha un paio di occhiali a specchio rosa, una maglietta rosa, è casa da scuola e aspetta il passaggio del Giro poco prima del traguardo volante, con la sua famiglia. Sa tutto ma non capisco se è perché le piace il ciclismo o si è informata a nastro su questa cosa strana che è la corsa.
“No, ma adesso i corridori sono 148, se ne sono ritirati due ieri”
“Scusa stellina” le dico, “non sono brava con i numeri io”
E’ un portento, mi ricorda le bambine che ammiravo da piccola, quelle che non avevano paura di niente, che sapevano esattamente cosa dire anche con gli adulti: avrei voluto tremendamente essere come loro. Arrivano.
Lei mi chiede altre cose, nomi e cognomi dei ciclisti, quanto ci metto da qui per arrivare a casa. No, stasera torno in hotel, non torno a casa.
Fa caldo a Pinerolo, forse l’ultimo giorno di caldo, prima che di nuovo torni la pioggia, tant’è non fa molta differenza. Quando sei abituato al peggio, non ci credi neanche che il meglio possa durare. O tornare.
Guardo lo schermo controluce, non si vede nulla, ultimo chilometro, il massaggiatore della Bora che urla, non capisco niente, lo seguo. Sbuca Cesare Benedetti e io mi chiedo soltanto come abbia fatto a fare una cosa del genere nell’ultimo chilometro. Freddo e gelido dopo una missione impossibile, lucido di sudore, forse senza parole, esattamente come quando non ti aspetti niente e arriva tutto. Come ti cambia la vita, le regole, le carte del destino sulla tavola, il ciclismo non lo fa nessuno. Poi la gente dice che non hai alzato le mani al traguardo. Ma cazzo, ci pensi un attimo al momento in cui hai tutto per le mani e una maledetta stronza paura? Ci pensi a quando l’occasione della tua vita dipende da quello che scegli? Ma lui non piange per la sua vittoria, ha gli occhi lucidi quando dice di un villaggio di partenza del Giro, un lontano villaggio di partenza perso nei ricordi di un bambino di undici anni. Si è innamorato lì del ciclismo. A Madonna di Campiglio, una mattina dell’anno 1999. Quella mattina, l’amore e la tragedia, inconsapevolmente. Come i fiori che crescono spontaneamente nelle spaccature dell’asfalto e tu non sai neanche dove diamine possano prendere l’acqua o la forza. Marco che scalava le montagne per non sentire dolore, il suo spirito che ancora non sa quanta luce è nata dalle sue ombre peggiori. Non ha alzato le braccia perché gli hanno insegnato che una gara non è mai vinta fino alla linea bianca, sì perché banalmente il ciclismo ti fotte proprio quando credevi di poterti fidare. E’ quello il punto dove fa più male.
Non ha alzato le braccia perché quelli che sono abituati a non chiedere niente sono così: non ci credono che qualcosa di bello possa capitare proprio a loro. Non ci credono che le cose si possano ribaltare in sei ore. Che sei ore bastano per ripagarti degli anni con il vento in faccia e gli applausi di consolazione. Come fai a crederci?
Tornando all’hotel, tutte le luci hanno un cerchio nero dentro come un’illusione, come astronavi da altri pianeti, tutte in fila, nella notte cupa delle strade di campagna. Sarà la stanchezza. Sarà che ad ogni cono di lampioni penso che siamo come i tirassegni di cartone dove la gente si sfoga a modo suo. Ferite dove è passato il sangue, ferite dove passerà la luce.