Notre vie est un voyage
Dans l’hiver et dans la Nuit.
Nous cherchons notre passage
Dans le Ciel où rien ne luit.
Voyage au bout de la nuit, Céline
Il cielo diventa scuro appena fuori dall’uscita dell’autostrada, nuvole nere si diluiscono nel cielo bianco della provincia dell’Alta Francia sopra le braccia secche degli alberi nudi, esattamente come quando metti una goccia d’inchiostro nero nell’acqua limpida. Petrolio. Mentre ancora c’è la luce dell’orizzonte contro la quale si disegnano le sagome dei cavalli immobili, come se fossero le tre di pomeriggio del venerdì santo. Questa corsa sarebbe piaciuta a Louis-Ferdinand Céline, nera e così cruda, maledetta come la condizione umana, imperfetta come le pietre della strada irreale che trancia in due la foresta in un posto dimenticato da dio. Un viaggio nell’inverno, al termine della notte. Fumano le griglie come riti di iniziazione ma dentro, nel costato profondo, tra le betulle, questa rimane una chiesa, come se la gente non osasse disturbare il sacro silenzio di Arenberg, che ancora disperde la polvere del carbone nelle giornate di vento, ci disegna sopra le facce dei minatori che ha visto sognare lì. Ma cosa si può sognare se hai sempre guardato gli incubi in faccia, se sei stato sottoterra come in una tomba, pregando o bestemmiando per tutto il maledetto tempo? Madre e matrigna, la foresta è in silenzio, senza spiegazioni.
La gente mangia per terra come un pic-nic tra i boschi, impassibile, con il freddo che ti taglia le ossa, come se fosse un gelido inverno. C’è Elsa di Frozen con la barba e uno che grida: “Lampaert” per tutta la foresta, come una sentinella: potrei giurare che lo sentono fino a là in fondo, fino all’entrata dove c’è il passaggio a livello e una festa con fiumi di birra sotto il cartello che indica cinque stelle. La difficoltà del settore, come se non lo sapessero, uno dei peggiori, proprio all’inizio dove la prendi a mille all’ora e i sassi sono i più taglienti di tutti, sporgono come denti, come maledetti denti d’acciaio. Ma così diceva Hinault: devi andare veloce, devi far finta di volare per cercare di non sentire il dolore. Lui la odiava questa corsa, lui l’ha vinta.
Sento nei capelli l’odore di salsicce affumicate nei domo pack in assurde griglie di fortuna, fuochi fatui attorno ai quali saltellano i bambini sprezzanti e pazienti. L’attesa è una cosa che si insegna, è una cosa che si impara ad amare poi. Sento nei capelli quell’odore selvatico del ciclocross mentre l’umido mi congela la faccia, guardo gli alberi neri contro il cielo bianco mentre sto seduta con la schiena appoggiata a una transenna. I tipi là dietro si mangiano un sacchetto di Lays formato cinquanta persone e strani rotoli di pane che si sono portati da casa. Bevo una Coca-Cola ghiacciata, chiudo gli occhi per un secondo, sento il grezzo cuore del ciclismo che sale dalla terra, gli inverni passati nei circuiti, tutti gli inverni di me stessa.
C’è l’elicottero, penso a quelli che guarderanno la visione onirica della foresta dall’alto, a quanto siamo piccoli e stupidi quaggiù, alla folle ricerca di un istante di intensità che duri per tutta la vita, che ancora ci faccia felici quando ci sembra di toccare il fondo della notte. Novanta chilometri mancano da qua al velodromo, novanta chilometri di inferno per un solo giro di anello che metta fine a tutto, un cerchio spazio temporale illuminato da un sole pallido ma dorato a tratti. Un tipo mi aiuta a sedermi tra i cespugli, ha una sigaretta in mano, la birra nell’altra, un po’ in inglese e un po’ in francese mi chiede se mi piace il ciclismo. Cosa vuoi che ti risponda, io sono quel genere di persona che quando si innamora, andrebbe anche sulla luna, il resto non conta. Sì, mi piace abbastanza, direi. Mi dice di tifare per Gilbert, lui e i suoi amici guardano il maxischermo così lontano che puoi solo immaginare, puoi immaginare benissimo quanto sono eterni gli ultimi gironi infernali, lo spettro del Carrefour che ha sempre dimostrato di poter cambiare il destino in una manciata di secondi, una sportellata in faccia e addio. E adesso lì, la campanella che è troppo lontana da sentire nel rombo di tuono del velodromo, adesso lupi per un istante e poi compagni appena dopo la linea bianca, un abbraccio: la prima cosa bella al di là della vittoria, ancora prima di sentire la terra sotto i piedi.
Dio, da qualsiasi parte stia guardando questo buco di posto senza futuro, possa benedire la lealtà che è l’unica cosa che ci rimane fuori dall’inferno, fuori dall’inverno.
Guardo la carta di un integratore che corre lungo la canalina, come una barchetta, nell’acqua di scarico delle docce. Uno strano viaggio, esattamente come il nostro, sotto questo cielo di ceramica semitrasparente che aspetta un’altra notte, che aspetta una carezza sulle piaghe, un posto così, liscio e piano dove sentirsi al sicuro.
I brividi. ogni volta che ti leggo… ogni giorno che mi e ci separa da Bruxelles mi chiedo se sarò all’altezza di queste emozioni, se sarò una compagna di viaggio degna.
Per ora posso solo dirti grazie, per la fiducia e l’opportunità, ma soprattutto grazie per quello che fai, per quello che scrivi e come lo scrivi.
Ma che all’altezza!! Qua viaggiamo sempre senza direzione e non ci sono prime classi 😉 Ci divertiremo.