A quelli che perseguono una sfida con tutte le forze. Loro lo sanno che è già una vittoria.
C’è stata una mattina di febbraio in cui, svegliandomi, ho visto la neve scendere a fiocchi enormi. Era domenica. Mi sono rimessa a dormire. C’era il GP di Lugano. L’hanno annullato.
E’ che questa corsa ha sempre avuto sta maledizione addosso: un freddo che non ti dico, giornate di primavera neanche a pagarle, la pioggia, il gelo o la neve, forse mancava giusto una pioggia di meteoriti.
Ma, in un anno in cui a quanto pare si spezzano le maledizioni, giugno ha preso il sopravvento.
Lugano ha ancora la sua solita faccia malinconica, il lago immobile, questa luce che in fondo vela tutto, l’odore della risacca che si sente solo a tratti, è più forte quello del Ligustro che senti salendo, mischiato a quello dell’asfalto, di città e di bosco, delle rotaie che si sciolgono alle due in punto laggiù lungo la ferrovia. Il caldo amplifica tutto. Un po’ come la salita. Fosse anche questo stronzo di unico GPM di giornata fatto otto volte cercando di non perdere il ritmo del gruppo. Poi il ritmo lo perdi, il gruppo anche, a un giro ti accodi, a un giro ti sfaldi. A un giro resti solo e basta. E’ la storia di oggi, la storia di tanti. Insieme alle Madonne e a tutti i santi vedi lo spettro del DNF. Do not finish. Tre lettere, una cosa da niente, in fondo alla lista, accanto al tuo nome. Tutt’altro. Vuol dire che hai mollato, per qualsiasi motivo. Ma l’hai fatto. E questo per un ciclista è una specie di peccato mortale.
Il fine corsa è passato da un pezzo, la salita è deserta, arriva un ciclista. Ha il numerino attaccato alla schiena. Sta correndo. Sta correndo da solo a mezz’ora dal gruppo. Mangiucchia qualcosa mentre la curva se lo porta via. Sta correndo fuori dalla gara e lo sta facendo da quattro giri.
Perché?
Più in su la strada si inerpica, stretta, tra gli alberi e i muretti dove si arrampica l’edera e non puoi far finta di non sentire le gambe, il dolore non è una cosa facile da gestire, nemmeno l’abitudine ti salva. Eppure fai un giro di nuovo senza nessuna deviazione, senza staccare il numero. Di nuovo in silenzio, lontano da tutti, persino dagli applausi perché manco capiscono che sei ancora lì pur sapendo di essere fuori. Forse non lo capisci nemmeno te. Ma la verità è che la vittoria è una faccenda pubblica, la sfida quasi strettamente intima.
Mi chiedo cosa ci sia nel limbo di una corsa non più corsa. Chissà se pensi più a chi me lo ha fatto fare o a quanta aria fresca si prende in discesa dopo una salita; se senti di più il sudore o il silenzio; se vorresti avere qualcuno che ti dice dai che ce la fai o avresti solo bisogno di restare da solo. Da solo così, come a volte ci troviamo nella vita quando la fatica deforma le cose e non distingui più quelle importanti, quello che vorremmo contro quello che già abbiamo. E’ difficile anche quando il ritmo lo decidi tu.
Il lago azzurro è una cartolina con le nuvole nere sulle montagne. Forse verrà il temporale. Forse l’ultimo giro l’avrà fatto o forse no. Non è quello che conta, alla fine. E allora cosa, uno dice. Il ciclismo è troppo enigmatico per spiegare il rapporto sacro e inviolabile con la dedizione folle, con le promesse fatte a sé stessi. Non puoi fare altro che continuare a correre. Fuori gara, anche.