Un uomo vale quanto le cose che ama.
Le mucche bianche come il cielo, la faccia lavata di pioggia del Belgio, il vento che porta aria di niente, come fosse aria di casa. Tornare, una parola così semplice, forse una delle mie preferite, perché io di mancanza ci muoio. Stavolta è diverso però, stavolta non ci ho pensato neanche un pochino fino a stamattina, fino a guardare la strada sempre diritta che dice Lille, la Francia e il confine, le distese dei prati così verdi nelle 10.40 così grigie.
Io Wallers l’ho visto solo su Google – da pazzi – ho guardato da lontano le sue case tutte uguali, villaggio industriale in mezzo alle campagne, gli infissi bianchi, la chiesa grigia.
Ci ho scritto sopra la storia di una rinascita, in cui c’entra la bicicletta sì ma soprattutto il resto. Il non sentirsi abbastanza per qualcosa che ami e non sai neanche perché. Così è questo paesino vegliato dalla miniera, che ci arrivi e sembra come gli altri. Ma non è per un cazzo come gli altri. La vedi in fondo alla strada, il passaggio a livello e poi questa specie di passaggio verso il nulla. Una striscia che taglia diritta e di netto la foresta di alberi alti, magri e scuri. La vedi e un po’ ti viene da piangere, come i bambini che immaginano qualcosa così tanto da credere che, in fondo, non esista. Un sogno, una visione, non lo so. Eppure è solo una strada che si perde fino a chissà dove, la gente ci fa jogging persino sotto la pioggia che risputa tutto il nero del vecchio carbone aggrappato alla terra negli anni. E’ così scuro e denso, un impasto magico che sembra quello degli stregoni per i miracoli. Forse è così, che a camminare qui sopra pensi soltanto a quello che serve per volare sui sassi così larghi e sconnessi e alti. Bernard Hinault diceva che bisogna tenere il manubrio saldamente ma con leggerezza, un po’ come nella vita.
Piove, i sassi sono lucidi e sulle vecchie rotaie sono cresciute le erbacce che gocciolano come gemme nella primavera del nord, tutt’attorno il muschio è surreale, giallo come se fosse radioattivo, brillante in una giornata che non lo è per niente, giallo come un sentiero incantato, su fino al ponte sopra il vuoto, sopra la schiena di pavé sconnessa. E’ così che la gente ha pensato alle cattedrali, credo. Con questi alberi alti fino al cielo, con questa strada d’inferno che porta al paradiso, con questo silenzio cadenzato dal ticchettio della pioggia, come un orologio o come una poesia.
Hell is living without you. Passano in radio Alice Cooper, il cartello dice Villeneuve d’Asq, giro quasi in automatico, come un cieco che sa riconoscere a istinto il posto del suo primo bacio. Ripenso alle notti, alla notte, a come fluiscono le cose come il sangue. Roubaix è solo un velodromo, un giro d’anello – anzi due – e uno quando lo vede pensa che sì, insomma, è tutto qui alla fine. Alla fine. Uno sprint per cancellare la dannazione dei chilometri. Un maledettissimo sprint. Ma mentre mi avvicino alla doppia linea bianca esce il sole d’improvviso, si illuminano le pozzanghere, l’acqua nei solchi della terra tra il cemento e il prato. Si illumina tutto d’improvviso come una specie di segno divino poi più niente. Un attimo, un lampo. Quello sprint.
Si alza il vento e sono sicura che non c’è stata nessuna suggestione. Vediamo quello che sentiamo, ecco tutto. L’ultimo giro di anello grida nel silenzio. E io lo sento, qui.