Sette e trentadue.
L’alba di una domenica immersa nel silenzio coi minuti scanditi dalle onde larghe del mare sulla battigia grigia e fredda della notte. Il sole spunta puntuale come un fungo, lacrima al contrario scesa dall’orizzonte azzurrino. Sopra l’isola passano due gabbiani muti. Sia lodata la bellezza del silenzio dopo la confusione.
La Liguria è così, sei da un’altra parte del mondo in pochi istanti, una porta spazio temporale che mi ricorda quando friggevamo le foglie di salvia croccanti e saporite e le rubavamo dal piatto guardando il mare, sentendo l’odore dell’entroterra arido e assolato alle spalle. E’ strano andare alla partenza di nuovo, guardando le colline illuminate e le rocce dove si arrampicano i fichi d’india e la mimosa già fiorita, così gialla a febbraio.
E’ strano svegliarsi e dirsi che si ricomincia sempre da zero, in fondo. Come la prima volta o come l’ultima. Il sole negli occhi a dimenticarsi un po’ dell’inverno, il solito odore dell’olio per i massaggi, correre per i vicoli stretti e bui dove di tanto in tanto occhieggia l’azzurro del mare, tra il profumo della focaccia o dei bomboloni. Mia piccola estate che torni, ecco il destino delle cose importanti che abbiamo vissuto: riecheggiano come la schiuma bianca, perpetua ninnananna che ci canta di essere liberi.
L’attesa del passaggio è pettinata dal vento, riporta le nuvole, vela il mezzogiorno imbevuto di sole. Per un attimo, mentre passano i secondi tra i fuggitivi e il gruppo, mentre ascolto una signora dall’altra parte che lamenta di non poter stare né in piedi, né seduta – e allora come? – sento un turbinio di cose, come se mi passasse per la testa tutto quello che ho fatto in questi anni, i posti, la gente. Tutto. E fuori silenzio, i minuti che diventano sei, il circuito tra l’entroterra e il mare, vegliato dai pini marittimi.
Da una casetta infossata in un vicolo con un balcone piccolo che guarda l’orizzonte viene la voce rauca, profonda, inconfondibile di Kurt Cobain.
Quanto tempo è passato davvero?
Sui tornanti si sale lentamente, è pur sempre domenica, è pur sempre una domenica di ciclismo in cui si può anche non pensare a niente altro che a guardare Laigueglia dall’alto con i suoi due campanili, l’isola lontana e gli aranci nei giardini coi cancelli a strapiombo. La salita è fatta per far male, è fatta per scattare. Ci prova qualcuno, ci provano a turno, Dillier lascia i suoi compagni di fuga, è più magro del solito, ha avuto l’infortunio e tutto il resto, è più leggero di sicuro, è quello che serve. La gente impazzisce per quelli che scattano, un amore viscerale dall’alba dei tempi, lo spettacolo. Anche se non basta non importa, basta sapere che essere a blocco è una cosa che ci chiede la vita per farci sentire la sua intensità, fa male e fa bene.
Che poi, quando scatta Moser, tutti ci ripensano: esattamente sei anni fa aveva vinto così, come vince lui, da finisseur; trentanove secondi sul finale, che figuriamoci se qualcuno riesce a rimontarlo. Sei come i minuti, come gli anni passati, persino dalla prima volta che ho iniziato a scrivere questo strano diario di viaggio. Sei che è il numero della perfezione, della bellezza, dell’equilibrio. Ci ripenso dopo, mentre si accendono le luci sulla costa, mentre la Liguria sfila dal finestrino e tutti – dico tutti – tornano verso Milano. Un abbraccio e un sorriso sull’arrivo, niente di più, niente di meno. E’ strano come la rabbia sia così facile da vedere, così incredibilmente irruenta come un fiume in piena che non puoi contenere mentre la felicità si scontra con mille muri invisibili costruiti da chissà chi. Siamo bravi a non dire niente, a contenere i gesti, a moderare tutto. Spiazzati: dentro l’uragano e fuori il silenzio.
Ma non importa se bussiamo contro un vetro questa sera e non abbiamo nessuna parola per spiegare cosa voglia dire ripartire. Da zero o da un punto che conosciamo fin troppo bene. E’ cruda e dolce questa terra a picco sul mare, voragini tra la roccia e l’acqua, tre file interminabili di macchine lungo l’autostrada e Genova che brilla nella notte e dice arrivederci, ancora ciao, perditi di nuovo e ritorna qui.
Bellâarticolo Miriam !
Guy Kostermans
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