Firenze. Non Santa Maria Novella, non il Duomo, non il Mandela Forum ma un punto qualunque della città, a cinquecento metri dalla linea di arrivo dei Mondiali di Ciclismo 2013. Niente opere d’arte o straordinarie testimonianze di chi, qui, ha lasciato che fiorisse il Rinascimento. Ma un incrocio tra palazzi vecchi e nuovi, dove da un balcone fa capolino un gagliardetto di Firenze. Il ciclismo e’ qui e ora: dove passa una ola, dove si sventolano le bandiere fradice di pioggia, dove si aspetta.

Sì, si aspetta in piedi contro una transenna gocciolante, con le mani intorpidite dal primo freddo autunnale. Diluvia sugli ombrelli stanchi e biascicati dall’aria umida e l’asfalto e’ lucido, nero, cattivo. Il tifoso vero e’ come il suo idolo su due ruote: sulla strada vive con lui, fa fatica e spera con lui. Per questo si attendono i dieci giri così: sotto un cielo che brontola di temporale e l’acqua che sferza, che continua a venire giù.
La macchina di inizio corsa sfreccia sfrigolando sull’asfalto zuppo. Rumore, muoversi di teste di gomiti e un “Arrivano” o un “Eccoli” in quattro o cinque lingue diverse. Attesa. E le pale dell’elicottero di ripresa che riempiono l’aria, scandiscono il tempo dell’arrivo. La  moto poi i due fuggitivi con le divise rese più scure dalla pioggia che gli e’ entrata oramai nelle ossa. Minuti, forse tre. Poi il treno azzurro dell’Italia a guidare il gruppo. E’ l’orgoglio che strappa dalle viscere e dal sangue un applauso forte, un urlo, un “bravi” gridato a quelle ruote tutte unite che sono già lontane. Alessandro Vanotti era alla testa: locomotiva tenace che, nonostante i chilometri sotto l’acquazzone non nega niente ai suoi compagni che, per oggi, non sono di squadra ma di Nazione. La sua Nazione. Che per vincere un Mondiale ci voglia un pizzico (forse anche di più) di fortuna, Alessandro lo sa. Ma nel ciclismo conta soprattutto chi resiste, chi arriva fino alla fine. Proteggere per resistere.

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Le ammiraglie, qualche corridore staccato poi il ritorno all’attesa. Trenta minuti per volta. Per provare la stessa emozione di un passaggio. D’altronde sono pochi i momenti che rimangono intensi anche se ripetuti. Il ciclismo ha questo potere. Di nuovo l’Italia emoziona: chiazza azzurra che fa il ritmo per due, tre altri giri.
E poi qualcosa si scombina. Un passaggio e’ scosso da un grido: “Visconti!” Qualcuno lo ripete a chi non lo ha riconosciuto.

Giovanni Visconti. Si e’ staccato dal gruppo e sta recuperando i fuggitivi. Si aspetta il prossimo giro con una nuova elettricità nelle vene. Intanto ha smesso di piovere: gli ombrelli non gocciolano più sulle felpe dei vicini e si ha voglia di sorridere, di commentare, di pronosticare.
Visconti può essere una bella sorpresa” tenta un toscano con il k-way e i capelli grigi raccolti in un codino.
Valverde” ripetono due ragazzi spagnoli che giocano con le lattine di birra semivuote.

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Di nuovo le moto, l’elicottero nel silenzio del cielo che, timido, regala un po’ di luce nuova, un quasi sole. Visconti e’ alla testa della corsa. Comincia il sogno italiano. Il tricolore, l’Inno. Si ha voglia di commuoversi e forse anche di abbracciarsi. Così, solo per dirci che parliamo la stessa lingua, che abbiamo lo stesso sogno per questo Mondiale.
Si parla di chi e’ ancora in gruppo, di chi e’ scoppiato, di chi si e’ ritirato. Si parla come se ci si conoscesse da sempre. Momenti intensi vissuti con persone delle quali non sappiamo il nome. Eppure e’ qualcosa di naturale: condividere, come una grande famiglia, sensazioni e convinzioni.
Al giro successivo, Giovanni e’ stato riagguantato dal gruppo. Delusione. Sapore amaro, di speranze sfumate. Ma mancano ancora due giri.
E Nibali dov’e’?” chiede qualcuno, mentre lo stadio, sullo sfondo, si illumina di un sole che, piano piano, arriva anche a noi.
Sfreccia davanti a noi, come chiamato, Vincenzo Nibali. E’ caduto, si e’ rialzato e sta rientrando sul gruppo. Ci ritorna il sangue caldo nelle vene: Vincenzo e’ la Nazione. Con il suo sorriso timido ha fatto suonare l’Inno in Piazza della Loggia e ci ha fatto stare immobili, con gli occhi lucidi e la mano sul cuore, a guardarlo salire sul gradino più alto del podio del Giro.
Penultimo passaggio: Vincenzo e’ in testa con Rodriguez. E’ un boato che lo segue lungo tutto il percorso. Un cuore solo sotto la stessa bandiera.
Un Giro d’Italia, secondo alla Vuelta…ce la può fare eh! E’ Nibali!” dice qualcuno e, di fianco a lui, un signore rugoso e abbronzato con il cappellino iridato annuisce vigorosamente.
In lontananza si sente il Brambilla che urla qualcosa. Si trepida. L’elicottero annuncia il passaggio: l’ultimo. Crediamo di vedere azzurro invece fiammeggia la Spagna di Joaquim Rodriguez con, a ruota, un sorprendente Rui Costa.
Scorre troppo tempo prima di rivedere Vincenzo che pedala verso il traguardo. I due sono già oltre la linea bianca. Il portoghese ha beffato Rodriguez. E non ci si crede.
Si guarda sfilare gli altri, uno per uno. Qualcuno porta addosso le tracce di una caduta: il pantaloncino strappato, un ginocchio sanguinante. Ma tutti hanno le facce di chi, pedalando sotto la pioggia, ha creduto profondamente che il Destino potesse preferire lui. Per un giorno.
Fine corsa, l’inno portoghese in lontananza e sciami di persone che si staccano dalle transenne e si riversano sulla via di casa.

Sì, il popolo del ciclismo torna a casa. Qualcuno si tiene stretto l’asta della bandiera, qualcuno porta una scala che, forse, nella folla, lo ha aiutato a vedere più degli altri. L’Inno ce lo cantiamo sottovoce. Questa Italia ci accompagnerà nel ritorno alla nostra quotidianità. In stazione, tra la gente che affolla la banchina, qualcuno dice: ” Nibali“.
Un altro risponde: “Si, si, non e’ campione del Mondo…ma per quest’anno!

Basta questo per dire che il nostro lunedì non sarà di delusione. Che gli azzurri culleranno il nostro ritorno alle cose di sempre. Stringiamoci a coorte, mentre corriamo con le automobili verso casa, mentre il treno lascia Firenze alle spalle. Un cuore solo, anche lontani.
Stringiamoci a coorte, l’Italia e’ più viva che mai.

 

Posted by:Miriam

Nata in Brianza, nella calda notte del 30 luglio 1991. Scrivo da quando avevo quattordici anni e nel 2012 ho cominciato questo viaggio che si chiama "E mi alzo sui pedali". Ho pubblicato "Voci di Cicala" nel 2013, "La menta e il fiume" nel 2015 e "Come un rock" nel 2019. Mi piacciono i papaveri, il profumo delle foglie di menta e la ninnananna della risacca del lago. A volte scrivo con gli occhi chiusi.

Una risposta a "Un cuore solo, anche lontani."

  1. Il ciclismo ha il suo popolo paziente.

    Quella gente che aspetta, anche sotto una pioggia incessante, 30 secondi di passaggio. La gara era sulla strada isolata dal pubblico da alte transenne e la gara era oltre queste nel riconoscere per primi i ciclisti trasfigurati dalla pioggia e dalle imbottiture. Chi per primo incitava, chiamava, urlava a quell’omino intirizzito, lo sentiva di sua appartenenza, di sua protezione.

    In quei sacrifici vissuti domenica a Firenze, sembra sport, ma è vestito da lavoro.
    Quale Sir – nominato con tanto proclama – si assoggetterebbe a tali sofferenze ed anche precipitoso ritiro? Il terrore della strada bagnata dello spilungone inglese, lo consociamo tutti. Eppure ha insistito caparbiamente…fino a confondersi tra la foschia dell’umido e dell’indistinto, pedalando solitario nei suoi pensieri, nella infruttuosa fatica.
    Tutti hanno avuto applausi.
    Tutti sono stati eroici.

    Ed in certe occasioni la classifica non conta. Tutti sono stati protagonisti e vincenti anche per un lasso ridotto di tempo, anche se non sono passati al decimo giro sotto il traguardo.
    I 208 partenti sono stati un unico respiro, un “cuore solo” anche se sotto maglie diverse. È vero Miriam, le cadute sono state tante, ma l’eroico ripartire – qui non si simula rincorrendo la palla per avere vantaggi – e le sbucciature, i lividi, i dolori del dopo: sono medaglie al valore della nostra passione condivisa.

    Grazie Miriam

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