Il salto nel vuoto dell’acqua la rende setosa come lunghi capelli di ghiaccio. Lo scorrere imperterrito dei millenni ha scavato la roccia, un liuto nel silenzio, che ha eroso la pietra. Stanotte ho sognato che abbracciavo mio nonno, gli facevo vedere un certo progettino e lui ne era contento. Noi eravamo contenti. Sembra una cosa impossibile che l’acqua possa scavare la roccia, eppure succede. Negli anni, lentamente, sempre allo stesso ritmo. Un pensiero fisso.
Che distrugge.
Che leviga.
Che poi consola.

Al Tour de Suisse non ci tornavo da esattamente sette anni. Sette come uno dei miei numeri portafortuna, come gli anni del sogno, come i cieli dell’antichità. Molte cose sono cambiate, altre sono rimaste identiche. Guardo i fotografi e mi chiedo cosa direbbe il Castelli da lassù – con la sua inconfondibile espressione e il cappello messo al contrario – del fatto che siamo tornati dopo così tanto tempo. Ci si ritrova alla tavola degli amici dopo una lunga assenza, si guarda ancora l’atmosfera di allegra quiete che rende questa corsa così singolare. Adesso lascio che la mente ripensi a quello che volevo prima e poi a ciò che sogno adesso. Questo sì che è un cambio radicale. Mi sento come si sentirebbe una farfalla che era bruco e si trova a dover ri-settare le proprie ambizioni. Quanto tempo è trascorso dall’ultima volta che ho sentito nominare l’applausometro dallo speaker? Quante Miriam sono passate attraverso queste sette ere? Pianti sempre meno, rabbia sempre di più, manie di perfezionismo incontrollate, silenzi assordanti, competizioni con tutto il mondo schierato come rivale.
Chi sono adesso?
Voglio avere il mio istante per essere vulnerabile senza il terrore dell’attacco, aprire uno spiraglio, mostrare un tallone di Achille nella corazza.
Scatto l’arrivo e poi gli inseguitori che boccheggiano nelle loro zone d’ombra. Scatto meno, scatto meglio. Anche questo è cambiato. Jack Kerouac mi direbbe: te lo avevo scritto. Via la punteggiatura, solo il sentimento, solo il ritmo, poche cose ma raccontate con la prosa più bella che puoi. Così esce solo il dramma dell’istante, intensità di un secondo cristallizzata per sempre. In quello siamo bravi, in quello siamo interi.


Apro il computer per scrivere e sono le undici. Anche se nessuno può vederlo ancora, continua ad esistere un posto dove non dobbiamo dimostrare niente, dove siamo perfetti in quanto noi stessi, dove non dobbiamo nascondere i lati più deboli. Dove non siamo invisibili. E poi, dove siamo liberi.
Là fuori scende la sera di un giorno in cui mi sono sdraiata a sognare in un luogo sicuro.
Essendo animali da preda, i cavalli si sono evoluti per essere sempre pronti alla fuga e hanno sviluppato un sistema muscolo-scheletrico che gli permette di riposare in piedi, senza cadere. Tuttavia durante la fase del sonno profondo - quella dove compaiono i sogni - i muscoli si rilassano completamente e l’animale è costretto a sdraiarsi, assumendo una posizione vulnerabile.
Un cavallo si sdraia per riposare soltanto quando si sente al sicuro.