Dopo aver rischiato di rompermi una gamba per quattro volte scendendo dal fianco ripido ed erboso della montagna, tolgo le scarpe e proseguo scalza nella semi-indignazione generale della gente che mi guarda come se fossi appena scesa da un altro pianeta. Effettivamente potrebbero aver ragione.
L’aria di montagna la senti subito in faccia, sa di sottobosco e alte quote assieme, di cortecce di pino seccate dal sole a picco dell’altitudine. Guardo senza vedere, non è capitato mai e mi odio per questo: stare così distante, pensare solo al punto giusto per le foto – che non è mai quello perfetto, mai – e non sentire niente altro se non la solita sensazione di quando l’elicottero passa sopra le nostre teste per benedire il passaggio della corsa. La sola cosa che tiene ancora legata la frana alla parete.
Le montagne occhieggiano appena tra gli alberi, queste non sono salite spettacolari, sono raccolte come una via crucis, non hai il tempo di vedere quello che c’è attorno, pensi solo a come prevalere sul tuo dolore. Yates sbuca dalla curva, sta cercando di ribaltare tutto e il ciclismo lo illude, perché è così che fa, ogni dannatissima volta. Ti illude che la forma della realtà non è questa, che la strada ha le sue leggi, come il destino.

Sento i rivoli di sudore lungo la schiena per le due felpe e l’antivento che mi sono messa in una giornata in cui la gente per la strada sta a petto nudo. Due tipi – uno vestito da squalo che probabilmente sta facendo anche lui una sauna gratis – incitano Formolo, si parlano, gli dicono che lo aspettano domani. “A domani” è nella lista delle parole che accorciano le distanze, a volte le diciamo con distrazione, altre volte invece sanciscono un legame.

Dalla seggiovia si sentono i suoni flebili dei tifosi che tornano a valle per i boschi, come piccoli spiriti della foresta che saltellano per i pendii invasi dalle felci, vegliati di tanto in tanto da malghe abbandonate con le porte chiuse e il tetto squarciato.
Dal quinto piano dell’hotel si vedono i tetti delle case di quartiere, la sera che scende sulla città e un rettangolo di luce laggiù nel cortile. Una specie di retrocucina dal quale mi immagino che esca un cameriere con qualche osso per un cane randagio. Penso ancora a quelle piccole malghe di lassù sventrate, con le loro pareti di sasso. Nelle notti di luna ci si può stare sdraiati a guardare il cielo. Senza avere freddo, ne sono sicura. Senza avere nemmeno un po’ di paura.
