Dietro i cancelli del parco l’autunno fa danzare lentamente le sue foglie sopra le panchine dei solitari lettori della domenica. La fila di alberi del viale si fa sempre meno nitida laggiù in fondo, nella nebbiolina lieve nella quale scompaiono le signore in bicicletta con i loro piccoli yorkshire felici nel cestino.
A Milano puoi stare in mezzo alla gente e allo stesso tempo completamente lontano da tutti e da tutto, come su un altro pianeta. Nessuno si chiede perché tu stia fissando il vuoto o sia uscito in ciabatte, questa è la parte migliore.
L’ultima volta che il Giro d’Italia è arrivato qui, era tutto molto diverso, noi eravamo diversi e la pandemia non c’entra con questo cambiamento.

I ciclisti sfrecciano ad uno ad uno verso San Babila e io penso che le persone abbiano ragione quando parlano di quella luce negli occhi che hai quando sei felice, sereno, appassionato, vivo. Quella luce esiste, io ci ho sempre creduto, l’ho vista riflessa in un giorno di marzo mentre il traffico di merda delle sette di sera intasava la tangenziale. Dicono anche che quella luce attragga attorno a te le cose pure dell’universo; dicono che quella luce si possa anche spegnere all’improvviso e niente torna ad essere come prima.
Guardo in faccia la città insolitamente silenziosa, i negozi chiusi e gli alti colonnati dei palazzi signorili. Da una parte le sfide contro il tempo hanno un fascino speciale, dall’altra ti rompi le palle se stai per più di due ore a scattare una foto ogni minuto. La velocità può essere noiosa se tu sei quella che sta ferma.


In ogni caso, nessun arrivo è cucito addosso al Giro meglio di Piazza Duomo e a me spiace davvero non avere una prospettiva trionfale come ti aspetteresti da uno scenario così. Perciò salgo su una delle terrazze che si affacciano sulla piazza, ordino un Aperol alla tipa che mi guarda abbastanza male perché sa perfettamente che non sono lì per un aperitivo e chiedo ai due che stanno guardando il rettilineo d’arrivo dal loro balconcino privato di fare una foto a quello che – oramai – è il vincitore. Loro dicono di sì e da lassù guardo la piazza stranamente asettica, spoglia, senza gente, senza piccioni, senza sole. Il rettilineo d’arrivo sembra una pista delle biglie sulla spiaggia grigia della Liguria, lisciata con cura da un bambino metodico. La maglia rosa taglia il traguardo e in un secondo è finito tutto. Adesso il ciclismo italiano può tirare un sospiro di sollievo: dopo così tante randellate e pure un autogol, forse si riuscirà a galleggiare ancora, almeno fino al prossimo decreto, almeno fino alla prossima bufera.

I coriandoli sparano nuvole rosa nel cielo uggioso, le persone si avvicinano come mendicanti alle transenne oscurate, cercano di spiare qualcosa ma tutto quello che riescono a vedere sono le pareti di plastica dei bagni chimici. Mi fanno tenerezza, so cosa vuol dire. Questo sport e il suo pubblico hanno ancora quel filo rosso che dicono colleghi le anime, in qualunque posto vada, uno sente la mancanza dell’altro, anche se forse nessuno lo saprà mai.
La sera precoce d’autunno scende sui palazzi degli anni Settanta e i lastroni lucidi delle piazze riflettono i semafori che si alternano ovunque. Nessun abbraccio adesso, nemmeno uno frettoloso, c’è giusto il tempo di dirti che questa stagione è stata troppo ingiusta, troppo cattiva e troppo breve per riuscire a scriverti quello che pensavo.
Anche Milano lo sa che basterebbe davvero poco per riaccendere quella luce.