Quattro giorni immerse nella drammaticità di un quadro impressionista, tra i girasoli, il tè alla menta, i canali, le biciclette e imperturbabili corvi neri come guardiani di un agosto totalmente straniante con il vento che non smette di piegare perennemente gli alberi delle città vicine al mare e la luce malinconica dei tramonti del Nord. In totale abbiamo percorso circa duecento chilometri, senza contare quelli a piedi che abbiamo macinato per perlustrare palmo a palmo un angolino di Olanda che adesso conosciamo meglio del giardino di casa.
Ecco alcuni consigli pratici da non prendere mai troppo sul serio.
ALKMAAR (PART I)
Appena apro l’ombrello – comprato last minute in aeroporto – mi accorgo che praticamente è un coriandolo di 30×30 cm, piove di traverso, ci sono di sicuro diciotto gradi e io ho un giubbino di jeans che è la cosa meno impermeabile del mondo dopo la carta igienica. Per fortuna una cosa che ho imparato in Olanda è che il tempo cambia da un momento all’altro: infatti, mentre io e la Vale stiamo camminando verso la partenza, la pioggia si calma e comincio a vedere quanto sia caratteristica e bella Alkmaar, con le sue case pittoresche di mattoncini e i giardini ordinati dove crescono mille fiori colorati e con il dondolio placido delle barche vuote sul bordo dei canali. La prima cosa che vedo è un corvo appollaiato a una bicicletta: è diverso, ha gli occhi azzurri come il ghiaccio e mi rendo conto che, sopra la città, ne volano stormi interi, insieme ai gabbiani. Deve essere tipo una mascotte, dato che ci sono finti uccelli volanti e aquiloni fuori dai negozi che friggono frites e pesce. Per quanto riguarda il pesce, decisamente me lo aspettavo, Alkmaar è a pochi chilometri dalla costa. Ma per le frites, non credevo che qua al Nord fossero come il caffè per gli italiani, cioè non esiste un momento della giornata in cui non si mangi un cono di patatine formato maxi con una colata di maionese. Un’istituzione.
Dopo la partenza degli junior abbiamo decisamente bisogno di mangiare. Ecco, Alkmaar è turistica ma non abbastanza da avere i menu scritti in inglese e l’unica parola familiare che riusciamo a interpretare è “tosti”, insomma, un classico toast al formaggio. Guardando la lista delle bevande, ho un’illuminazione che mi viene subito confermata da Google Traduttore: in lista c’è una cosa che berrei a litri, la Elderflower, una bibita frizzante ai fiori di Sambuco.
Il locale è più un caffè che un ristorante ma è accogliente, ha le prese per ricaricare il telefono – vitali – e un salottino che sembra uno degli angolini ricreati negli showroom Ikea – non nascondetevi, sappiamo tutti che sono carini – e sulle porte dei WC c’è il calendario dei concerti in città. Tutto ok, tranne il ketchup con il toast. Intanto fuori ha smesso di piovere.
ROAST
Laat, 198
1811
Alkmaar
Sarà l’aria, sarà il fatto che, con la prima ispezione del percorso, avremo già fatto una decina di chilometri avanti e indietro, a me viene fame ogni secondo. Troviamo il nostro amico belga Guy nella piazza della chiesa e anche lui è dell’idea di mangiare qualcosa. Potremmo spacciarlo per un aperitivo, se non fosse che sono le quattro e mezza e i ragazzi stanno ancora correndo. Ma questo è solo un modo per abituarsi alle tradizioni olandesi. Per non perdere niente, ci sediamo fuori da un locale spagnolo – boh – e ordiniamo croquettes al formaggio – una cosa sulla quale non si sbaglia mai.
Granada Food & Wine
Kerkplein, 5
1811
Alkmaar
Dato l’orario chiedo al cameriere se hanno qualcosa di analcolico, naturalmente lui non capisce e mi porta questa strana bevanda dolciastra – dice di venderne a palate – che si chiama Gecko. E’ una Vodka al Caramello che all’inizio ha quello strano sapore di caramella mou fusa e alla fine si potrebbe rivelare una seria dipendenza. La allungo con sei cubetti di ghiaccio, non ha niente di olandese.
Alkmaar è a pochi chilometri dal Mare del Nord e sulla spiaggia di Egmond aan Zee il tramonto è languido e lento, il vento pettina le dune e accumula nuvole bianche e grigie mentre i bambini corrono lontani, lungo un’infinita distesa di sabbia fino al mare, lontano anch’esso, reso infinito e piatto da una battigia immensa. Cominciamo la nostra dieta di patatine fritte e Bitterballen fuori da una friterie, nell’ultima magica, drammatica, luce del giorno che spiega il contrasto tra il buio e la luce che esiste qui. E poi noi, a camminare come degli stupidi equilibristi nel breve spazio tra il sereno e il temporale.
ALKMAAR (PART II)
La feroce bufera olandese miete le sue prime vittime: noi. E pure transenne che minacciano di essere totalmente scardinate dai mulinelli di vento che salgono dai canali e trascinano via tutto, tranne gli indigeni che, in maniche corte, pedalano sulle loro biciclette nere d’ordinanza verso il ritrovo di partenza. Ma gli spiriti sanno che ci sono momenti che nemmeno gli uragani possono incrinare: la tormenta si placa per un solo minuto, quello per Bjorg Lambrecht. Riesco a sentire solo l’acqua di una fontana che scorre assurda come la vita dentro un silenzio così profondo che sembra di stare nello spazio infinito.
Ricomincia a piovere appena dopo la partenza. Ho bisogno di una cintura per tenermi su i pantaloni, un antivento per sopravvivere ma prima le cose importanti: la colazione. Fa freddo e il vento piega gli alberi a metà, abituati anche loro a questo clima da Siberia in piena estate, entriamo in un bar deserto, ordino una delle cose più tipiche (ma anche più buone) che si possono bere a qualunque orario: il muntthee, cioè un infuso caldo di menta, dove la menta all’interno è praticamente un arbusto intero. Mi faccio condizionare dalla Vale con questa classica torta di mele esposta e che alla vista sembra uno dei soliti mattoni olandesi con zucchero, sciroppo di zucchero e glassa di zucchero. Non mi sbagliavo, è tipo uno strudel con mille milioni di calorie in più. Risultato: non riesco a finirla. Consiglio: lasciare perdere i dolci, come ho già constatato in passato, qui non brillano.
HOFMAN
Kerkplein, 7
1811
Alkmaar
Intanto ha di nuovo smesso di piovere, il vento ha portato via le nuvole, torna il sole ma la mia temperatura corporea è ben stabilizzata da una t-shirt + una felpa + il giubbino di jeans + giubbino antivento. Andiamo alla ricerca di nuovi spot per le foto, localizziamo il museo del formaggio, cerchiamo il settore in pavé camminando lungo i canali dove la gente sulle barche legge i giornali e beve la birra in ciabatte, ozi lussuosi del sabato mattina. Questa città ha il vantaggio di essere abbastanza fuori dalle classiche mete turistiche, così vicino alla gettonata Amsterdam eppure così lontano dal suo delirio da oppio: Alkmaar ha lo spirito sereno e meditativo dell’Olanda, con quella magica luce che nessuna macchina fotografica può catturare davvero. Scatto una foto: è senza colore. Metto via il telefono, metto via la reflex, guardo le file di luci sopra la via dei ristoranti che tintinnano nel vento del primo pomeriggio, la gente fuori ai tavolini nel sole di un agosto che sembra aprile. C’è un vento che può spazzar via anche le paure d’improvviso come fa con le nuvole?
ALKMAAR (PART III)
Domenica mattina, la luce bianca del tiepido sole sui canali e il deserto completo, anche se siamo a tre quarti d’ora dalla partenza che dal programma pare sia alle undici. Secondo i ritmi milanesi si può largamente fare colazione ma gli olandesi hanno tra le loro caratteristiche di prendersela con – molta – calma. E’ questa l’unica pecca di un posto veramente hipster che avevo già notato il giorno prima, uno di quelli che piacciono a me, con le palme sulla carta a parati e dove mangi bowl naturali, avocado, smoothies e frullati.
ECHT Alkmaar
Marktstraat 4
1811
Alkmaar
Felicità: nel menu c’è il french toast con il burro d’arachidi e i frutti di bosco. Mentre la Vale ritenta con una torta al cioccolato, io aspetto il mio toast per venti minuti con la tipica ansia pre-gara e, quando finalmente arriva la mia colazione, so che dovrò fagocitarla in meno di cinque minuti e ingoiare il tè alla menta bollente evitando di farmi andare di traverso uno degli arbusti che galleggiano nell’infuso.
In realtà la partenza è alle 11.30 e il toast non sarà il mio unico pranzo della giornata come avevo previsto: la Vale vuole prendere qualcosa da sbocconcellare al Jumbo – sì, per chi non lo sapesse sono supermercati – e mentre l’ottanta per cento della gente esce in ciabatte con casse di birra noi prendiamo una specie di sformato di sfoglia con quella che si rivelerà una Frikandel, questa specie di salsiccia dal sapore totalmente indefinito che sembra la merenda preferita di Hannibal Lecter. D’altronde l’esperienza è una cosa che costa.
L’ultimo saluto di Alkmaar è la luna precoce di agosto sopra il canale mentre corro da un bancomat all’altro per capire dove prelevare i soldi e i gabbiani svolazzano sopra un gelato che si sta squagliando in mezzo alla via dove due turisti bevono una birra da soli: impazzisco quando la prosa e la poesia si mischiano insieme con quell’effetto straniante che ti fa restare a bocca aperta e non capisci se è shock o incanto. Molto probabilmente entrambe le cose.
AMSTERDAM
La prima cosa che faccio, mettendo piede per la prima volta in città, è rischiare di essere investita da un tram. La seconda è aprire l’ombrello. La terza cercare un posto dove mangiare ed è forse la cosa che odio di più perché neanche Trip Advisor è in grado di fornirti l’orientamento che cerchi in una capitale grande come Amsterdam. La Vale mangerebbe anche dal kebabbaro sull’angolo ma alla fine, mentre scende una pioggia sottile che rende le case e i canali grigi e melmosi come in un racconto di Melville, ci infiliamo in un locale strano, a metà tra un vecchio cinema con le pesanti tende rosso porpora e un salotto Art Nuveau. La fortuna dei principianti.
Il cameriere è alquanto strano ma simpatico e noi possiamo saziare la fame con la visione su un angolo bar da sobborghi parigini. Quando usciamo, c’è il sole e mi accorgo che l’aria di Amsterdam è un misto di quello che normalmente si respira nei sottopassaggi delle stazioni e i sabato sera ai campetti in provincia, quando i ragazzi hanno trovato l’erba per farsi le canne. Ça va sans dire.
Mata Hari
Oudezijds Achterburgwal 22
1012
Amsterdam
Ci dirigiamo verso piazza Dam dove c’è il Palazzo reale e nel frattempo constatiamo che ci sono più italiani qui che sul volo Milano Bergamo. Entriamo in un negozio di souvenir dove ci sono Van Gogh e zoccoli ovunque e Miffy che come è logico non sorride mai. Ricomincia a piovere e poi smette. In fondo è una questione di abitudine, questo tempo olandese è stronzo come le persone. Esce un po’ di sole, un cavallo da tiro aspetta al centro della piazza che qualcuno salga sulla sua carrozza vuota. Di questa città non mi entusiasma niente, forse è al limite del mainstream o forse sono io a sbagliare visione.
I canali con i fiori e le caratteristiche biciclette nere legate alle ringhiere: tutto bello ma sono cose che assomigliano troppo a cartoline già viste. Mi piace la porta di una libreria illuminata dal sole dalla quale si vedono solo libri e un negozio dove ci sono gli adorati Kanken di tutti i colori: sono rimasta a quando avevo cinque anni, mi muove solo uno strano tipo di stupore che a volte non capisco neanche io.
Sul pullman per tornare in aeroporto ci sono due spagnoli che parlano di qualche viaggio, uno di loro si è scritto sul braccio: “La vita è la sola insegnante” o una cosa del genere.
Tamarro ma vero.