Sembra impossibile ma neanche l’autogrill pieno di bambini che molto probabilmente sono diretti in massa a Gardaland per una giornata in cui verranno brasati dal sole durante le code chilometriche riesce a scuotermi dal torpore del sabato mattina.
Se ci penso, il Tricolore è una specie di mega raduno, in cui tutti hanno la sveglia presto, la divisa del fan club addosso e un sacco di orgoglio che condiranno con la birra e il vino. Sudati dalla testa ai piedi, naturalmente, come in fila per un concerto, grondanti e impassibili.
Che poi a Darfo Boario c’è questa specie di istituzione – la salita di Erbanno – che è peggio di un GPM a un grande giro, uno strappo secco dove si arrampicano i fan club appunto, si prendono una curva, un pezzo di marciapiede, l’ombra a piccole chiazze contese, si portano dietro mezza casa e lo senti giù, dal paese, che sono arrivati, che c’è una festa tipo quelle americane in cui tutti invitano tutti e succede il delirio.
La musica spacca il silenzio del mezzogiorno, come fa il sole con questa curva a picco tra le case che si affacciano sulla valle nell’insistenza delle cicale. Dall’asfalto salgono cinquanta gradi tipo una pista di Formula Uno, su quell’asfalto ci sono le scritte Batta, Batta, Batta. Un panino, la frutta annegata nella grappa e una birra fresca che mi spilla il Giuliano mentre canta. Certe volte pensi che la gente si sia dimenticata come si faccia a voler bene ma poi capisci che c’è ancora speranza. Grazie, sul serio.
Ogni tanto folate d’aria come una benedizione inattesa fanno luccicare i cipressi, portano L’Amour Toujours di Gigi Dag. So da dove arriva. E’ esattamente il punto tra il “peggio” ed “è passato”, l’ultimo colpo di pedale al diciassette per cento ed eccoli là: nessun gazebo, griglia fumante come una specie di altare, pantaloncini risvoltati fino alle mutande e Moretti ghiacciate ovunque. Uno di loro spruzza tutti quelli che passano di acqua fresca con uno di quei contenitori per lavare i vetri: un po’ come al Tour ma – grazie al cielo – siamo in Italia e loro cantano Ma che ne sanno i duemila, ma che ne sanno i duemila.
E’ così che funziona il ciclismo: ti esaltano i folli, a te folle che sei sulla bicicletta a soffrire senza sapere dove arriverai davvero. Non è che cambia, la salita non fa meno male ma di sicuro ti senti a casa, anche quando non c’è niente di comodo dove sdraiarsi e chiudere gli occhi. Anche quando fa caldo così e si deforma tutto in un circuito che dicono assomigli alle Classiche del Nord ma su in Belgio non c’è di certo questo tempo quando le corrono. Ma forse è vero, attaccano gli uomini che sono sempre stati da Classiche, anche quando tutti gli altri se ne erano dimenticati, anche se un velocista ti sfonda il muro del suono se te lo porti appresso. In fondo il Tricolore è sempre il Tricolore.
Dice grazie, grazie, grazie a mani giunte Elia Viviani rannicchiato dopo la volata a metà tra lo sforzo e la consapevolezza.
Arriva una folata di vento, tra gli inseguitori e il gruppo che ancora deve arrivare, scompiglia tutto per un secondo: è calda, è luglio che arriva e mi lecca come un cane quando è felice di vederti, ha l’odore dell’asfalto sciolto dal sole. Un bambino vigila ossessivamente su tutti i portaborracce nel giro di un chilometro, insegue i ciclisti come un vero cacciatore e poi riporta il bottino a suo padre che gli gironzola intorno. Non so se in tutto sto casino esistono ancora le generazioni ma forse le borracce sono un po’ come Barbie Magia delle Feste, come le videocassette, Bim Bum Bam o le canzoni di Max Pezzali che quando le passano alla radio alzi il volume e le canti tutte a memoria con il finestrino abbassato e ti dimentichi pure dell’aria condizionata.
Ma che ne sanno i duemila.