6 febbraio 2013 – USTICA, IL MISSILE E LA VERITA’ CHE NON FA PIU’ NOTIZIA
Quando ho sentito, alla radio, che a trent’anni dalla strage di Ustica si sa finalmente con certezza che a spezzare quelle vite fu un missile, ho pensato a tante cose. Alla carcassa dell’aereo custodita in un hangar: scheletro e muscoli d’acciaio a brandelli che hanno la parvenza di una reliquia che possa ancora parlare; alla gente che quel venerdì di giugno andava da Bologna a Palermo; alle bugie, alle conferenze stampa, alle righe, miliardi di righe, spese sui giornali. Ho pensato che trent’anni sono tanti. E va bene che il cammino per la verità, spesso, è lungo e dissestato. Ma non quando la verità era lì, sotto gli occhi di tutti. Ho pensato ad Andrea Purgatori, allora giovane giornalista, che ha sempre urlato all’Italia la sua verità, quella degna di essere chiamata così.
Quel DC-9 che il 27 giugno del 1980 doveva atterrare, in serata, a Palermo, non portò mai le ruote del suo carrello sulla pista. Si squarciò in volo, tra le isole di Ponza e Ustica: misteriosamente. Da subito si fecero le ipotesi più assurde e l’Aeronautica che sicuramente sapeva tutto, diede la colpa a un “cedimento strutturale”, raccontando la barzelletta degli aerei costruiti per portare il pesce e che, con l’acqua salmastra infiltratasi, avrebbe minato la sicurezza di quegli apparecchi. Tutto questo a fronte del recupero delle vittime: corpi dilaniati che non assomigliavano per niente a morti annegati ma, piuttosto, a vittime di una bomba. Ma nemmeno questo è plausibile perché il DC-9 era partito da Bologna con ben due ore di ritardo: l’ordigno sarebbe esploso prima. Chi ha il coraggio di avanzare una scomoda verità sulle pagine del Corriere della Sera è proprio Purgatori. Le schegge e i corpi estranei trovati all’interno delle salme, nell’autopsia, danno ragione a una tesi che sembra assurda eppure si incastra perfettamente con gli avvenimenti: il DC-9, quella sera, per colpa del ritardo, si trovava nel posto giusto al momento sbagliato e un missile lo ha abbattuto. Il destinatario non doveva certo essere lui ma molto probabilmente un aereo che ospitava l’allora leader libico Gheddafi. Gli studi sulla carcassa dell’aereo ripescata, sui corpi e la scatola nera misteriosamente scomparsa danno ragione all’ipotesi del complotto internazionale e del desiderio di infangare tutto. A resuscitare dal fango, però, è anche un cadavere di un pilota libico schiantatosi con il suo Mig sui monti della Sila. Il suo ritrovamento è del 18 luglio di quell’anno ma lo stato di decomposizione del corpo è avanzato. Le testimonianze dei contadini, contrariamente alle dichiarazioni ufficiali, affermano che quell’aereo militare cadde verso la fine di giugno. Quasi sicuramente si schiantò quella stessa sera, quella della strage. Solo nel 2007 Francesco Cossiga, che nel 1980 era presidente del Consiglio, ha attribuito la responsabilità di quelle morti ad un missile francese, destinato a Gheddafi, a conferma delle inchieste coraggiose fatte fino a quel momento. E solo pochi giorni fa la Cassazione ha confermato che la strage di Ustica avvenne a causa di un missile, lanciato durante un’azione di guerra e non per un’esplosione interna al DC-9, condannando i ministeri a risarcire le ottantuno vittime.
Al dì là della cifra, secondo me, irrisoria che i familiari riceveranno, dopo aver aspettato trent’anni e sopportato un’infinità di umiliazioni e di bugie, mi hanno colpito le pagine dei giornali. Forse prima, quando si cercava la verità, una notizia del genere sarebbe finita in prima pagina, con un titolo che l’occupava per metà. Adesso che Ustica è lontana da tutta la nostra quotidianità vuota, adesso che ci siamo dimenticati che lo Stato Italiano, quella sera, non ha saputo difendere le sue donne, i suoi bambini, da un missile di un’altra Nazione, quella verità finisce in un trafiletto di cronaca come gli altri. Adesso che c’è la verità non interessa più. Non fa più notizia. Perché ci interessa sapere se a fine mese riusciremo a mettere i cavoli o i carciofi nel nostro carrello della spesa, se il bambino di Belen scalcia o no, se possiamo rinunciare alla palestra o faremo meglio a metterci a dieta così, magari, risparmiamo pure nel cibo. La verità, la vera verità, è che trent’anni li hanno fatti passare apposta. Perché la notizia potesse essere solo una banale conferma nel nostro tran tran anticrisi. Trent’anni sono serviti un po’ da morfina, ad ammortizzare il dolore e l’indignazione. Trent’anni hanno regalato allo Stato la conferma che gli italiani non cambieranno mai, che potranno continuare a fregarli anche per sempre finché continueranno a credersi furbi, a pensare di sapere tutto del sistema, a dirsi “tanto queste cose le so”. Continueranno a fregarli finché non si accorgeranno che le notizie importanti non sono quasi mai in prima pagina.
5 – 6 dicembre 2012 – HO VENTISEI ANNI E LI AVRO’ PER SEMPRE.
Mi chiamo Giuseppe, ho ventisei anni. E li avrò per sempre.
Sono un operaio. Sì, quelli che si vedono sempre in televisione che protestano. Ma che lavorano. Lavorano come matti, a volte come cani, come numeri. Perché, in fabbrica, ci si toglie la pelle di uomo e si diventa numeri. Numeri che servono per la produzione. Io ero un numero di una fabbrica torinese, una filiale tedesca di un’azienda siderurgica che ha un nome difficile da pronunciare, duro, quasi ostile: ThyssenKrupp.
Se ci ripenso, a quei giorni, avrei dovuto capirlo che, prima o poi, sarebbe successo qualcosa. Tornavo a casa sempre con i pantaloni sporchi di olio fino al ginocchio e, con i miei colleghi, ci dicevamo sempre che non c’era sicurezza: dovevano chiudere la struttura e nessuno pensava più a garantire le condizioni giuste per lavorare. “Ci hanno abbandonati a noi stessi” dicevo a mia madre, quando si lamentava perchè faceva fatica a lavare via l’olio dai pantaloni. Se ci ripenso, potevo andarmene via prima ma c’è una cosa che non capiscono mai, di noi operai, che quello stipendio lì, anche di mille euro, è un piccolo tesoretto. Ed è per proteggerlo, per aggrapparci a lui con le unghie e con i denti che timbriamo il cartellino, che diventiamo numeri. Che abbiamo paura ma, accanto alle macchine, che sono mostri e amiche allo stesso tempo, ci stiamo ugualmente.
E quella sera, che era come tutte le altre, nemmeno avevo voglia di andarci, in fabbrica. Di solito, quando avevo il turno di notte, cenavo velocemente così avevo un’oretta per riposarmi, prima di cominciare. Invece quella volta, me lo ricordo bene, mentre ero a tavola, ho detto ai miei: “Quasi quasi questa sera mi fermo a cenare con voi”. Ma poi uscii e tornai subito perché avevo dimenticato le chiavi e, ora che lo so, forse qualcuno, in quel momento, mi stava dicendo: “Stai a casa”. Ma uno non ci pensa. Quante volte non si ha voglia di andare al lavoro: se tutti ascoltassero quella voce, nessuno si alzerebbe dal letto il lunedì mattina.
Così in fabbrica ci andai, anche quella sera, come tutte le altre. Verso le undici o le undici e mezza telefonai a mia madre. Ero di buonumore e lo trasmisi anche a lei: è vero che lo stabilimento stava per chiudere ma, di lì a poco tempo, mi avrebbero assunto con un contratto che mi avrebbe permesso una piccola buonuscita. Quella fu l’ultima volta che sentii la sua voce e, se solo sapessimo, che certe parole sono le ultime, le ascolteremmo con più attenzione, le terremo di più per noi. Invece, ancora adesso, se mi sforzo, non riesco a ricordarmi che cosa ci siamo detti: era una telefonata, nulla più.
Era notte fonda quando scoppiò l’incendio. Antonio era corso a prendere l’estintore per aiutare due colleghi a spegnere le fiamme. Ma l’estintore era vuoto. Allora hanno dovuto usare l’idrante. In quel momento ci fu un’esplosione e Bruno e Angelo furono investiti in pieno. Quando accorsi pensai: “Deve essere così, l’inferno.” Le urla, le fiamme, i corpi lacerati e il caldo, il fumo asfissiante. E il terrore di morire lì, come topi, quando, fuori, la notte di dicembre diceva che presto sarebbe arrivato Natale. Del resto ho ben in mente solo le ore di agonia in ospedale. Ma non quello che c’era attorno: no, quello no. Con il mondo avevo già chiuso. Ma il male, il dolore, di tutto quello che l’incendio aveva lasciato sul mio corpo, sulla pelle e dentro. Non ho fatto in tempo a vedere un nuovo anno. Mi sono fermato lì, il duemilaeotto, per me, non è mai arrivato ma mi dicono che non mi sono perso niente. Eppure io continuo a dirmi che se fossi rimasto a casa, quella sera, avrei potuto ancora guardare negli occhi la mia famiglia e dirgli che gli volevo bene. A tutti loro che adesso piangono e che non hanno giustizia. Perché i responsabili che avrebbero dovuto prendersi cura di noi, sono ancora in libertà, dopo essere stati condannati. Perché hanno detto che noi eravamo imprudenti, che è stata colpa nostra, che ci siamo dati fuoco da soli. Perché per loro eravamo numeri. E, per i numeri, non ci si preoccupa. Un numero si sostituisce facilmente. E io lo so. Lo so che se quella notte tutto fosse stato a posto, se l’estintore fosse stato pieno, se qualcuno si fosse dato pensiero di quei pantaloni sporchi di olio fino al ginocchio, non sarebbe successo niente. Ma io, oramai, sono qui. Ho ventisei anni. E li avrò per sempre.
19 ottobre 2012 – AREA TASSI: LA DESOLAZIONE DELLE RUSPE E IL CORAGGIO DI DIRE “BASTA!”
C’è una parte di triuggesi che quella storia la può raccontare ancora. Quella delle donne che, tutte le mattine, pure d’inverno, con il gelo e il cielo ancora scuro, andavano giù, al Lambro, alle tessiture, a guadagnare la loro giornata di lavoro. Storie di quando l’automobile era un lusso per pochi e, in fabbrica, ci si doveva andare a piedi. Storie che, forse, anche i nostri amici di Fismes si sono sentiti raccontare da chi di dovere.
L’Area Tassi la stanno buttando giù in questi giorni: era una tessitura, prima che diventasse scatolificio. Una tessitura che ha sentito lo scorrere del Lambro per molto tempo, sotto le sue mura. Questo piano, come molti altri, è passato sotto silenzio e i cittadini avevano alzato la voce solo per dire che quella torre in cristallo di tredici piani, lì, era davvero improponibile. Poi la torre è stata abbassata e, del progetto non se ne è più parlato, o se ne è parlato pochissimo. E, forse, i triuggesi pensavano, da buoni brianzoli che tutto “l’era andà in nient”. Era andato in niente.
Invece, a metà settembre, sono iniziati i lavori. Il terreno dove sorgeva la tessitura ospiterà nuovi appartamenti (che probabilmente si uniranno a tutti quelli invenduti, sul territorio), uffici, collegamenti stradali, parcheggi e chi più ne ha più ne metta. Tutto questo, come al solito, senza offrire una briciola di servizi in più al nostro paese che piange. L’area tassi la ricorderemo solo in fotografia e, forse, per ascoltare i racconti dei nonni che se la ricordano come era allora, dovremo combattere contro il rumore del traffico che intaserà questo nostro angolo di Brianza.
Pensiamo, però, che questa vicenda ci debba ricordare che non possiamo continuare a stare zitti. Triuggio è soprattutto nostra, è di chi ne conserva la memoria, dei nostri figli e di chi vuole continuare a guardare dalla propria finestra senza incontrare un muro di cemento. Noi del Comitato siamo nati così, dal nostro “Basta!”, dal voler fare qualcosa, qualcosa di vero per salvare quello che rimane del nostro Paese. E abbiamo cominciato da un altro piano che sarebbe andato avanti sotto silenzio, che sarebbe stato discusso in un consiglio comunale vuoto, che avrebbe avuto i soliti assensi formali: quello di Villa Luisa. Abbiamo portato le mamme, i nonni, persino i bambini nelle aule del comune, abbiamo fatto giocare i ragazzi nei campetti che si preparano a ricevere cemento, abbiamo messo le nostre firme e le nostre facce sul ricorso al T.A.R.
Così si cambia. Così ci riprenderemo un po’ della nostra Triuggio e che la desolazione delle ruspe sull’Area Tassi ci sia da insegnamento, per tutti noi. Perché non succeda più che la gente non sappia nulla finchè le gru vengano a togliergli la luce del sole. Perché tutti possano riavere la libertà di dire “Basta”. Ed essere ascoltati.
www.triuggioonestaverdevivibile.it
9 ottobre 2012 – IL DISASTRO DEL VAJONT. SIAMO LA SADE O TINA MERLIN?
Sono le 22.39 del 9 ottobre 1963 quando dal Monte Toc scivolano giù oltre 270 milioni di metri cubi di rocce e terra, riempiendo, in pochi secondi il bacino artificiale formato dalla diga del Vajont. Il paese di Longarone, ai piedi di quella valle profonda, talmente profonda da meritarsi il soprannome di “Gola del Diavolo”, viene sommerso da una mano soffocante di acqua, fango e detriti che lo distruggono completamente, portandosi via i suoi abitanti.
Inutile ripetere che l’avevano detto in molti, da sempre, da quando la società SADE aveva cominciato i lavori per quello che doveva essere una sorta di miracolo economico per la gente povera dei paesi limitrofi. La parola “Toc” in friulano significa “marcio” ed, effettivamente, dalle vere analisi compiute su quel territorio si riscontrava che la stabilità non fosse proprio una delle caratteristiche principali. Ma la diga non si poteva fermare, era troppa l’ambizione di poter mostrare al mondo un’opera così imponente, come non se ne erano mai viste allora. E’ così che cominciò la condanna di più di duemila persone che, quella sera, trovarono la morte nelle proprie case. Ma di tutto questo non mi ha colpito la dissennatezza o il pelo sullo stomaco, come si dice, dei dirigenti, dei tecnici, di chi si è preso la enorme responsabilità di dire che tutto era a posto, che tutto era sicuro. Sappiamo bene che il potere, l’ambizione e i soldi, in questo mondo, hanno il potere di spazzare via la coscienza e, di esempi, ne abbiamo fin troppi, senza andare troppo in là nel tempo. La figura che mi è rimasta dentro è quella di Tina Merlin, giornalista dell’Unità che ha ascoltato, fin dall’inizio, le voci sulla diga, le contrarietà degli abitanti della valle. E ha portato sulla carta le loro proteste. Tina è stata la sola ad avere il coraggio di dire che no, quella diga non era il progresso ma un pericolo, a mettere il suo nome e la sua faccia contro la SADE che era una vera e propria potenza, anche sullo Stato Italiano. Non è mai stata zitta, nemmeno quando hanno tentato di chiuderle la bocca con una denuncia, perché aveva osato dire la verità sui giornali.
Mi sono resa conto che veramente Tina Merlin è un esempio per ogni persona che scrive. Per tutti i giornalisti che pensano che un articolo sia un copia e incolla di informazioni trovate su internet, che abbassano la testa perché glielo dice un potente, che riempiono battute di nozioni lontane dalla realtà. E quella diga, quel mostro imponente rimasto lì, in piedi tra le alpi bellunesi, sopravvissuto all’ondata di quella sera, è un esempio per tutti noi. Per questa Italia che instaura dibattiti sulla bellezza delle veline e non ha il coraggio di mettere la faccia per una giusta causa. Quel fango che ha ricoperto le vite della povera gente, la luce impietosa dell’alba del giorno dopo che ha fatto vedere al mondo i corpi irriconoscibili, dopo la catastrofe, sono un esempio per tutti noi. Perché ogni giorno, anche oggi, a distanza di quarantanove anni, dovremmo chiederci: noi siamo la SADE o Tina Merlin? Siamo quel fango che sommerge gli innocenti, che non dice una parola contro le ingiustizie, che riesce a dormire sonni tranquilli oppure siamo la luce dell’alba, le parole vere scritte sui giornali, le facce che non hanno paura di farsi vedere tutte quante, al sole?
E voglio concludere così, con le parole che scriveva Tina, in occasione dell’invaso del bacino artificiale che costrinse gli abitanti ad abbandonare le proprie case. Case che avevano l’unica colpa di trovarsi lì, dove l’uomo voleva compiere qualcosa di straordinario e, invece, piantava solo la prima stazione di un lungo calvario:
“Questa valle che prima era nostra, adesso non lo è più. Qualcuno ha deciso che deve morire e, al suo posto, ci deve essere un lago. Allora noi chiediamo a questi signori: se domani vi cacciassero dalla vostra casa, dandovi pochi giorni per fare i bagagli, cosa vi portereste dietro? Il letto sul quale sono nati i vostri figli? Il tavolo, la porta, la foto del vostro matrimonio? Cosa vi portereste dietro, per conservare nei giorni a venire il vostro passato, la vostra memoria? Fatevele, queste domande, signori della SADE. Noi, oggi, ce le siamo fatte. E non è stata una bella giornata.”
13 marzo 2012 – CUBA, UN TRISTE BIGLIETTO DI SOLA ANDATA. La vicenda di Carlo Anselmi.
La ghiaia cricchia sotto i nostri piedi e il sole luccica tra le lapidi di marmo, mette bagliori sulle lanternine delle tombe. Siamo andati a trovare il nonno, poi la zia mi dice: “Vieni, ti faccio vedere una persona.”
Ci dirigiamo verso il cimitero inglese. Sono tutte basse le tombe, lì, tutte uguali, separate dall’erba curata, verde. Condomini, le chiamano. “Eccolo qui” dice. “Aveva la mia età, veniva a scuola con me: lo conosce anche la mamma.” Mi abbasso per leggere quello che c’è scritto: Carlo Anselmi, morto nel 2009, proprio come il nonno. Guardo la foto: un giovane dalle spalle ampie, atletico, con gli occhi chiari. E dietro di lui uno sfondo tutto azzurro: mare e cielo. Una fotografia, forse, scattata durante una vacanza. Mi viene naturale dire: “Che bel ragazzo”. “Era quasi un metro e novanta” dice la zia alle mie spalle. “E’ sempre stato così. Aveva la mia età” ripete. La sua età. Vuol dire che, nel 2009, aveva quarantatrè anni. Lo guardo ancora per un momento poi ci facciamo il segno della croce, diciamo una preghiera. Mentre torniamo verso l’uscita chiedo: “Com’è morto?”. La zia abbassa la testa e tronca: “Una brutta storia. Non è una cosa bella da raccontare. E’ morto a Cuba. E’ tornato indietro a pezzi.” Inutile dire che, queste parole, hanno dato il via, nella mia fantasia a volte un po’ troppo spinta, a una serie di situazioni terribili. Pensavo a delle faccende di droga, di sicari e di tutte quelle cose che, bene o male, sono legate al nostro immaginario della Cuba più nera. Non ho osato chiedere di più e di questo ragazzo non ne abbiamo più parlato.
Lo spunto per riflettere e per scrivere è arrivato quando ho visto un servizio alla televisione e, parlando con la zia, mi ha raccontato tutto.
Carlo Anselmi è morto a Cuba, il 28 agosto 2009, durante una vacanza con gli amici. Aveva appena bevuto una Coca – Cola quando si è sentito male, accusando dolori laceranti allo stomaco. Subito, è stato trasportato all’ospedale di Santa Clara. Ed è qui che è cominciato il suo calvario. Questa struttura ospedaliera è un vero e proprio lager: muri pericolanti, sporcizia ovunque, persino topi. Anche dalle foto che i mass media hanno riportato sui giornali si capisce chiaramente che l’edificio assomiglia più a una fabbrica abbandonata che a una struttura sanitaria. Il padre, Agostino, lo raggiunge presto, lasciando il lavoro dell’azienda brianzola di famiglia, e si sente dire da Carlo: “Papà, portami via da qui perché, sennò, non torno a casa vivo”.
La prova che Carlo stia dicendo la verità, arriva pochi giorni dopo, quando il suo cuore smette di battere a causa di una setticemia. Una morte assurda, inspiegabile, che si poteva evitare con il semplice trasporto del paziente in un’altra struttura. Invece a uno sconvolto Agostino viene detto che il figlio era intrasportabile, che, per le sue condizioni, non si poteva trasferirlo.
E bisogna tenersi forte il cuore dicendo che la cosa tremenda non è solo questa. Carlo, un ragazzone di un metro e novanta, è tornato in Italia dopo due settimane dalla morte, in una bara piccola e usata. Gli avevano spezzato le gambe per farcelo stare.
Quando, dopo molte peripezie, è stata riesumata la salma per fare un’autopsia decente, il dolore di Agostino Anselmi ha ricevuto un’altra bastonata incredibile: gli organi non c’erano. Di Carlo non era rimasto che un involucro vuoto. Un ragazzo ucciso tante volte da gente che non sa che cos’è la pietà e il rispetto per chi non c’è più.
Quando ho ascoltato queste cose, le mie orecchie non ci volevano credere. Ho avvertito la pelle d’oca come mai in vita mia e ho pensato al dolore di quella famiglia, che non poteva ricordare il figlio con la serenità dovuta ad ogni lutto. Avere nella mente una bara piccola che non può contenere un ragazzone, alto, sportivo. Ripensare a quella autopsia impossibile su un corpo senza organi. Nessuno si merita una sofferenza così.
Per fortuna, spesso, dopo un lungo tunnel buio, prima o poi, arriva un po’ di luce. Agostino Anselmi non ha mai smesso di lottare per sapere la verità sulla scomparsa di suo figlio. Sabato scorso ho visto un articolo, su un giornale locale, che parla di Carlo, del suo caso che potrebbe essere presto riaperto. La procura di Monza è arrivata ad appurare che il Ministero degli Esteri e la compagnia di assicurazioni, probabilmente per non pagare, hanno dichiarato falsità su questa vicenda. I medici che lo avevano in cura hanno sostenuto che il ragazzo avrebbe potuto essere trasportato in una struttura più idonea. Allora, perché il consolato italiano sull’isola, mentendo, ha dichiarato che Carlo non si poteva muovere? Perché le autorità cubane non hanno informato dell’avvenuta asportazione degli occhi alla salma? Ci sono ancora tante domande e, forse, il calvario è ancora lungo perché la controparte istituzionale, nonostante le numerose lettere, inviate anche dal sindaco di Seregno, si è sempre mostrata sorda all’umano desiderio di verità di un padre che ha perso tragicamente un figlio.
La cosa che più mi spaventa, però, è il fatto che certe cose devono per forza toccare da vicino per sentire dolore. Parlando di questa vicenda è capitato che una persona mi dicesse: “Là fanno così, se non ci stava nella bara, hanno dovuto fare così” oppure “Ha i soldi da buttare, quello lì, per fare tutto questo traffico, tra Cuba e l’Italia! Ha tempo da perdere!” E allora mi chiedo se questa gente merita di avere un cuore. Un cuore che resta inutilizzato, che compie giusto la propria funzione vitale di pompare sangue al cervello. Ma che non usa nemmeno un muscolo per amare, per provare compassione. Ho capito tante cose da questa brutta storia. Ho visto la vita uccisa per niente, il dolore atroce di un padre e la determinazione, la forza di fare chiarezza. E ho avuto l’ennesima conferma che, purtroppo, per molte persone il dolore e la gioia devono toccare esclusivamente la loro pelle per sapere se hanno un sapore buono o cattivo. “Prima di giudicare un uomo, cammina tre lune nelle sue scarpe” dice un proverbio indiano. Pochi hanno voglia di camminare nelle scarpe altrui. Si ha paura che siano troppo strette, troppo larghe o troppo consumate. Non importa se le scarpe nuove di oggi possono essere quelle vecchie di domani, si continua a camminare con le proprie, fino a che ci si accorgerà che l’umanità non è divina. Che il mondo ha bisogno sempre di più di compassione, di dolcezza, di sensibilità, soprattutto davanti alle brutture della vita.
6 marzo 2012 – SE QUESTI SONO UOMINI…Il lager della porta accanto.
Correzzana è un piccolo comune nel cuore della Brianza, è attraversato da un torrente ed è circondato da campi che, durante la bella stagione, profumano di grano e di erba e d’inverno odorano di terra umida. E’ a circa sei chilometri da casa mia e, quest’estate, ci passavo spesso in bicicletta. Non passano molte automobili per quelle strade e, per stare all’aria aperta, a correre o a pedalare, è l’ideale.
Ma non sapevo che, tra quei “sali e scendi” in mezzo ai campi si nascondeva una fabbrica di morte.
La notizia delle circa cento scimmie arrivate nei “laboratori” Harlan per esperimenti ha sollevato un enorme polverone di indignazione in tutta Italia. E sapere che, a pochi chilometri da me, si consumava questo orrore mi ha dato la tremenda sensazione di avere un lager fuori di casa.
Sabato, con un’amica, sono andata a Correzzana, a vedere il presidio che gli animalisti avevano organizzato fuori dalla sede di questa ditta americana che avrebbe lo scopo di rendere migliore la nostra vita, con la ricerca. Sono rimasta impressionata. Sul sito della Harlan Laboratories c’è una presentazione dell’azienda egregia: tutto sembra assolutamente nella norma. Scienziati in camici bianchi, persone sorridenti, locali igienici e pieni di attrezzature adeguate. E’ raccapricciante, invece, vedere che questo laboratorio internazionale non è altro che un casermone grigio, senza finestre, nascosto con l’ingresso di una casa privata e circondato da filo spinato. E’ atroce vedere che, dalle fotografie che girano sui giornali, in televisione, su internet, i banchi su cui quelle povere creature vengono torturate sono più simili a quelli dei macellai piuttosto che a quelli dei medici.
Ma quello che più mi lascia allibita non è il fatto che le persone che hanno in mano queste ditte, che ci lavorano, che ci vivono sopra, non ascoltino i manifestanti, gli animalisti. Non è il fatto di non ascoltare il grido di protesta ma quello di essere ciechi, sordi davanti alla sofferenza di un debole, anzi di esserne il primo esecutore. Sì, perché un animale è debole.
Fin da piccola ho imparato che bisogna rispettare le creature più piccole di noi e non è un ragionamento new – age, come tanti nella società di oggi potrebbero pensare: è umanità. L’umanità che abbiamo perso, che confondiamo con altre cose, che abbiamo dimenticato. Manchiamo di umanità.
Tra questi campi di casa mia, con il lager dietro l’angolo, mi sono detta che davvero chi ha rispetto delle cose piccole lo avrà anche delle cose grandi. Queste persone non potranno essere degli uomini rispettosi, non potranno mai rendere la società migliore, nemmeno con il falso pretesto della ricerca. Se questi sono uomini, il mondo sarà sempre meno umano.