Mentre il sole sembra non essere ancora sorto sulla campagna verdegrigia penso che il novanta per cento della nostra vita è fatta da sogni non realizzati. Cose che ci piacerebbe avere ma non abbiamo i soldi – principalmente – e poi la fortuna, il tempo. Scorrono le casette dove penzola la luce della cucina affacciata sulla strada, qualcuno forse sta facendo colazione: fuori ci sono quegli strani alberi che fanno crescere a spalla, con un ramo nel ramo di un altro, come croci nere contro il cielo grigio. Nessuna foglia, niente di niente. L’intera esistenza in una sfilza di mattine tutte uguali, dove le stagioni si alternano e noi siamo sempre gli stessi.
De Kuil la chiamano, la buca in fiammingo. Un’enorme cava dismessa di sabbia e ghiaia scavata per costruire l’autostrada. Dentro i belgi ci hanno costruito il loro parco giochi per le domeniche di freddo e di gelo, quando l’ultima cosa che ti viene in mente è uscire di casa.

Non ti accorgi subito di dove sia effettivamente: come una di quelle grandi creature nei bestiari medievali, De Kuil appare d’improvviso sotto i piedi come una grande voragine, la terra e poi d’improvviso il vuoto, un crepaccio di un canyon dal quale gli indigeni guardano i visi pallidi con serafica calma prima della battaglia. Sopra la buca più famosa del cross, l’aria è un haiku invernale di Kerouac.
Capo Cavallo Pazzo guarda a Nord
Jack Kerouac
– con occhi lacrimosi
Turbina la prima neve
Come in una sfera agitata da un bambino, grandi fiocchi cadono sulle rive di ghiaia asciutta senza potersi posare, si sciolgono dentro i gluhwein bollenti, si mescolano alle birre rovesciate sulle maniche dei piumini. La buca si riempie, la gente affonda fino alle ginocchia nella sabbia come un ritorno a casa la notte della vigilia di Natale in una bufera di neve. Le persone sono così tante da non poterci neanche credere, uno vicino all’altro, nessuno spazio libero. Resto in piedi a guardare quella gigantesca arena nel mezzo della campagna che assomiglia ad un rustico velodromo di Roubaix negli ultimi due giri, dove i pieni e i vuoti si alternano come in fase di decollo e atterraggio. Mancano cinque minuti alla partenza degli Elite e sembra che nessuno respiri. Silenzio assoluto.

Così questo è il nostro premio di consolazione, per tutte le volte che ci siamo sentiti impotenti, che abbiamo bruciato tutto per poche, piccole cose che dovevano essere vissute, per tutte le volte che non abbiamo pensato a noi stessi ma sempre e solo a quello che si poteva fare per non vivere inutilmente. De Kuil chiude lo stomaco nel suo abbraccio per dirti che i sogni li hai costruiti tu, senza che nessuno ti prestasse qualcosa, senza avere troppa fortuna ma sempre con gli Spiriti a guardarti le spalle quando succedeva qualche cazzata.




Parte la corsa, il gruppo si fa inghiottire nella voragine, nel cuore del boato della gente, fin sotto per poi risalire. Tutto così, discese e rilanci, per non perdere la velocità mai. Il circuito è inatteso persino a vederlo dal vivo: vento che taglia in due appena fuori dall’otto volante e tensione folle nella baratro dove, ad ogni discesa e ad ogni risalita, un boato scuote la cava.
Van der Poel invece è come ci si aspetta: feroce, puntuale, impassibile. La maglia da Campione del Mondo resta immacolata dall’inizio alla fine, nessuna sbavatura sopra tutti questi mortali che lo guardano come un alieno venuto dalla luna.

Ma anche i semidei sono umani, talvolta. Sul podio, mentre la luce dorata dei fari lo illuminano, batte i denti per la sera polare che sta scendendo su quella landa dimenticata in mezzo al niente. Questo non è per i sani di mente – di sicuro – neanche per quelli che amano tiepidamente.
Questo giorno è per i pazzi santi masochisti che non ne hanno mai abbastanza, che ancora restano quando il giorno scompare, che bruciano senza pensare al domani, che il presente è vivo, che il presente conta come ultimo atto senza mai una fine.

La via per tornare alla macchina è buia e quasi deserta, qua e là dalle villette con giardino occhieggiano gli alberi di Natale dalle finestre nei soggiorni deserti. In lontananza si sente il tum tum continuo della musica sotto il tendone del pogo ma qui, in questa stradina, qualcuno bussa dall’altrove e sento solo il fruscio del vento gelido tra i rami spogli, il ticchettio di qualcosa contro un vetro, fili che dondolano nel vuoto.
Hoka Hey vuol dire semplicemente “in avanti”.