L’alba tra il grigio e il roseo filtra appena tra le nebbie che coprono silenziosamente la campagna tagliata in due senza pietà dall’autostrada. Qua e là i casolari dormono ancora, strane balene cullate dal mare di nulla con le loro piccole luci che le fanno sembrare degli acquerelli appena accennati, misteriosi antri dove le persone dormono con le loro felicitò e le loro tristezze.
A me le mattine così sembrano benedette: nessun sentimento di malinconia o di rammarico, nessun particolare entusiasmo, niente di niente. Stare a riposo dagli alti e bassi della vita è qualcosa di così raro che, quando accade, bisogna pregare che duri il più a lungo possibile.
Tutto succede nella tua testa, direbbe Jack Kerouac.
E probabilmente avrebbe ragione.
Penso che il gravel sia ancora una disciplina piuttosto immacolata, lontana dai leccaculo a cui siamo abituati che hanno preso il ciclismo come trampolino di lancio per volare altrove – eppure sono ancora qui. Insomma, è tipo lo scatto fisso delle prime volte, una zingarata tra amici che vogliono solo uscire a divertirsi – questa volta senza doversi fare sempre il segno della croce prima di partire.

La strada bianca tra i vigneti e gli ulivi è abbacinante nel rintocco del mezzogiorno, un wild west dove tutti vogliono un cavallo per andarsene via e darsi alla macchia, unirsi agli indiani, vivere con le stelle sopra la testa e la polvere negli occhi quando c’è troppo sole e non piove da giorni. C’è qualcosa di irresistibile qui che assomiglia al ciclismo nudo, crudo nel suo senso di fuga da tutto. Sporcarsi senza che nessuno ti guardi, bestemmiare senza che nessuno ti senta, piangere senza che nessuno se ne accorga, uscire dall’asfalto e restare con sé stessi, capire che poi alla fine non si sta tanto male da soli e che non ti devi preoccupare della gente che se ne va senza motivo, dei capricci altrui o di qualsiasi altra cosa che non riguardi la profondità. Niente è finito e niente sta finendo. La strada è ancora diritta davanti a noi, laggiù dietro la polvere luccica qualcosa e noi ancora non sappiamo cosa sia.

Dopo l’arrivo, guardo le facce impastate di quel mistico fango di sudore e terra, se lo lavano via con le bottigliette d’acqua come una cascata, restano piegati sulle bici a riflettere o a guardare l’asfalto come farebbero con il vuoto. Restano per minuti interi, come se non volessero andare via mai, come se una doccia potesse rompere lo strano incanto di un traguardo dal quale nessuno – dico nessuno – esce incazzato. Non è qui che dobbiamo tornare, allora? Siamo stati fin troppo rabbiosi e frustrati con tutto e tutti, è ora di finirla.

Il Piave è in secca, ci sono i solchi netti che l’acqua ha lasciato sui suoi argini che si intrecciano con la visione dei corpi mutilati dalle nostre battaglie perse – o vinte, a nostro discapito. Siamo morti e risorti molte volte ma il ciclismo sa che niente ha scalfito il nostro amore, che siamo sempre rimasti qui, anche quando ci hanno rubato una terra che era nostra, anche quando difendere il confine voleva dire sacrificare tutto, persino sé stessi.
Lui lo sa.
Semplicemente siamo rimasti.
L’Isola dei Morti è un piccolo lembo di terra lambito dal fiume Piave all’altezza del Montello e compreso nel comune di Moriago della Battaglia. Proprio qui tra il 27 e il 29 ottobre 1918 si combatté una battaglia cruenta e decisiva per gli esiti della Prima Guerra Mondiale che portò gli Arditi fino a Vittorio Veneto. Moriago fu il primo paese italiano a essere liberato ma il prezzo pagato dai soldati fu altissimo. In questo fazzoletto di terra, all’indomani delle imprese eroiche, furono ritrovati migliaia di corpi senza vita di Arditi italiani. Da quel giorno, quella che fino ad allora veniva chiamata Isola Verde, divenne l’Isola dei Morti.